sabato 28 aprile 2012

L'Inferno

Conclusi la quinta parte di “La Religione Semplice” con queste parole: La Bibbia, incluso l’Antico Testamento, è la più affascinate storia d’amore che esista. Un Dio d’amore crea altri da amare e con cui condividersi. Li pone in una dimensione temporanea, dove sa che si allontaneranno, ma che ultimamente torneranno a lui. Rimane nascosto, senza interferire nelle loro scelte e li guarda crescere. Li guarda fare scelte giuste e sbagliate, e sa che inevitabilmente questo li preparerà per il loro destino finale con Lui. In questo modo e in questa dimensione, gli uomini partecipano alla loro stessa creazione, decidendo la loro natura eterna con le loro scelte. Si autodeterminano, fino a che, come liberi esseri cercheranno Lui. E lui era sempre lì che li aspettava, corteggiava e preparava per un’eternità insieme, che va di là da ogni immaginazione. E’ la più grande avventura che esista e non c’è romanzo o saga che vi ci possa comparare, e il finale è estremamente lieto.
Qualcuno dirà, “ma non per chi va all’inferno”, ma c’è una risposta anche per questi e la serbiamo per uno studio futuro.


Eccoci quindi all'argomento lasciato allora in disparte, la questione dell'inferno. Un'idea infernale che molti preferiscono ignorare; sanno che fa parte della loro religione, ma non ci pensano e non ne parlano. Altri, invece, vivono nel timore continuo di cadervi, o che qualcuno a loro vicino possa subirne le pene. Per altri ancora l'inferno è il posto dove andranno gli altri, quelli che non la pensano come loro. Quindi, una questione spinosa, che causa ansie, pregiudizi e non pochi fraintendimenti. Approfondiamola un po’.

Origine dell'idea

Nella cultura italiana, l'immagine dell'inferno risente l'influenza della Divina Commedia, ma l'idea ha radici molto più antiche. La visione dantesca era, infatti, influenzata dalle mitologie e filosofie greco-romane, e l'idea dell'inferno era perfino antecedente a queste. Ovviamente c'è chi suppone che derivi, invece, dalla Bibbia, il che sembrerebbe corretto, ma anche lì la parola inferno viene usata sempre di meno nelle nuove traduzioni. La versione Douay Rheims del 1899 utilizzava la parola “inferi” e “inferno” ben 114 volte, la CEI del 1974, 86 volte, la CEI del 2008 riduce a 72 e altre versioni moderne scendono al di sotto di 30 volte. Nella Holman Christian Standard Bible, che vanta di avvalersi degli studi storico linguistici più recenti e un vasto team di esperti, la parola inferno appare solo 10 volte. Sembrerebbe quasi che la parola “inferno” sia destinata a sparire, perché? Qualcuno potrebbe sospettare un compromesso, una sorta di annacquamento per rendere la Bibbia più abbordabile alle persone moderne, che non amano sentirsi parlare d'inferno. Secondo gli esperti si tratta, invece, di traduzioni più corrette, dovute al fatto che ora si conoscono meglio le lingue originali per via di ritrovamenti archeologici e documenti antichi che sono affiorati negli ultimi decenni. C'è da dire che anche prima di queste traduzioni più recenti, nelle cosiddette traduzioni letterali della Bibbia, come la Young's Literal Translation, non esisteva la parola inferno, perché nei testi originali non c'è un vocabolo corrispondente. La parola inferno, infatti, non è la traduzione di un termine equivalente in ebraico o greco antico, le lingue dei testi originali. Inferno descrive invece un concetto teologico, già esistente in tempi antichi, ma che andò pian piano a insinuarsi nel pensiero cristiano, fino a guadagnare considerevole prominenza, dal quinto secolo in poi. Divenne così diffuso che i traduttori biblici convertirono poi ogni parola con attinenza alla morte in inferno. Per esempio, le parole שאול [sheol], nell'ebraico dell'Antico Testamento, e Ἅιδης [ade], in greco antico del Nuovo Testamento, significano semplicemente tomba, morte o l'invisibile. Il termine era usato indistintamente per chiunque moriva e senza alcun riferimento a un loro destino ultimo. In certi periodi e in certe traduzioni queste due ricorrenti parole furono, invece, tradotte con inferno. Un’altra parola che veniva usata metaforicamente per descrivere la peggior sorte che si potesse subire è Geenna: il nome di un luogo usato come discarica pubblica fuori dalle mura di Gerusalemme.

La sola parola che, in effetti, è riconducibile alla nostra idea di inferno, si trova in 2 Pietro 2: 4. La parola usata è tartaro, l'inferno della mitologia greca in cui Zeus rinchiuse i Titani. Purtroppo l'epistola è pseudepigrafa. La persona che si firma come Pietro afferma che Dio ha rinchiuso gli angeli ribelli nel tartaro, ma il legame con concetti ellenici rivela un diverso autore. Per una serie di motivi, l'epistola fu a lungo considerata incerta anche se e poi venne ugualmente aggiunta al canone biblico. I dubbi di allora sono stati poi confermati da studiosi moderni, anche se questo non annulla la validità dei buoni insegnamenti in essa contenuti.

Un inferno eterno?

Per i Greci Ortodossi, anche se l'inferno c'è, non è eterno. Per i cristiani ortodossi non esiste la stessa idea d'inferno che esiste per quelli latini. A loro avviso l'idea dell'inferno eterno e dell'eterna separazione da Dio, fu un'invenzione dei teologi latini. La loro comprensione di quei brani della Bibbia che parlano di un giudizio di fuoco, è che il fuoco non separa da Dio ma servirà a bruciare l'iniquità dell'anima, affinché venga purificata. Per loro, anche nel Giudizio, Dio è sempre presente. Per loro è anche impossibile tradurre la parola aion, quella usata nei testi originali in relazione ai giudizi di Dio, in eternità, perché sanno che ha un altro significato. I teologi latini, invece, hanno interpretato sia αἰών [aion], dal greco antico del Nuovo Testamento, e sia עולם [olam], dall'ebraico dell'Antico Testamento, in eternità. Le due parole significano, invece, per una vita, un'età o un era, quindi un periodo di tempo limitato e non eterno. Si potrebbe quindi dedurre che l'idea di un inferno eterno non sia un'inconfutabile verità biblica, qualcosa che la modernità sta cercando di spazzare via con altre cose buone del passato, ma sia, invece, un'intromissione teologica sopraggiunta da un certo periodo in poi. Le traduzioni bibliche, specialmente quelle medioevali, sembrano dimostrare questo. Un po' per ignoranza e un po' per convenienza, quell'idea fu anche utilizzata per la gestione dei sistemi religiosi e le masse loro soggette.

Che ne dice il Vangelo?

Potremmo continuare a parlare di brani biblici che si prestano alla supposizione di un inferno eterno, per poi vedere come la teologia latina abbia scelto d'interpretarli. Purtroppo, continuare ad analizzare i fattori storico-linguistici e culturali, così come il lavoro di quei traduttori che partivano da posizioni teologiche già decise, renderebbe quest’articolo troppo lungo, tecnico e noioso. Avendo fin dall'inizio deciso di semplificare, direi di tornare ora a quel criterio fondamentale che abbiamo sempre utilizzato, quello dei vangeli. Sappiamo che in essi troviamo la rivelazione più chiara di chi e come fosse Gesù, e quindi anche il Padre. Se abbiniamo a questo la nostra esperienza personale con Dio, ecco che i fatti e la fede si abbinano, ci danno slancio e un quadro affidabile del carattere di Dio.

Guardando al Vangelo, immaginate cosa ne sarebbe se Gesù avesse raccontato la parabola del buon pastore in questo modo: “Che cosa vi pare? Se un uomo ha cento pecore e novantanove si smarriscono, non lascerà le novantanove smarrite e si rallegrerà per quella non smarrita? In verità io vi dico: se non trova le novantanove si rallegrerà per quella che gli rimane. Così è volontà del Padre vostro che è nei cieli, che chi si perde rimanga smarrito” (“perversione” di Matteo 18: da12 a 14). Orribile! Completamente il contrario di quello che Gesù intendeva illustrare con la parabola originale, in cui Dio si mostra insoddisfatto col 99% di successo ma mira al 100%. Eppure, secondo certe teologie, Dio perderebbe la maggior parte dell'umanità e ne riuscirebbe a salvare solo la minima parte, quei pochi che detengono dottrina e riti “giusti”, ma il resto andrebbe all'inferno. Insomma Dio dovrebbe accontentarsi di una piccola percentuale, di una pecora sola che si salva, mentre le novantanove finirebbero tra le fiamme. Qualcosa non quadra. Qualcosa non combacia col Vangelo.

Sì, è vero che Gesù disse anche che la via che porta alla perdizione è larga e il cancello che porta alla vita è stretto, ma bisogna fare attenzione a non estrapolare certe affermazioni e costruirne ragionamenti che contraddicono l'esempio, il carattere e l’intento di Gesù. E' palese che Gesù non fosse esclusivo e disse “chiunque viene a me io non lo manderò via” quindi l'affermazione sulla via larga e il cancello stretto non può essere interpretato in maniera esclusiva e finale del destino di ogni essere umano. Basti pensare alla conosciutissima storia del figliol prodigo, dal vangelo di Luca 15, versetti da 11 a 32. Vediamo come sarebbe se la adattassimo all'idea di certuni: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: «Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta». Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: «Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati». Si alzò e tornò da suo padre. Quando era ancora lontano, suo padre lo vide e, mosso dall'ira, gli corse incontro e cominciò a percuoterlo. Il figlio gli disse: «Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio». Infatti, proprio così, disse il padre, che ordinò ai servi: «Presto, portate qui gli strumenti di tortura e castigatelo, mettetegli la catene ai piedi e imprigionatelo. Prendete dei tizzoni ardenti e bruciatelo, perché questo mio figlio è morto e ora pagherà in eterno per l'offesa che mi ha recato». E cominciarono a torturarlo. Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì le grida di dolore del fratello; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: «Tuo fratello è qui e tuo padre lo sta facendo torturare affinché la sua giustizia si compia». Egli si impietosì verso il fratello. Suo padre allora uscì a vederlo ed egli disse a suo padre: «Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu ora stai punendo mio fratello perché ti ha disobbedito. Ti prego, punisci me invece, e perdona mio fratello per amore mio. Lo so che lui ha divorato le tue sostanze con le prostitute, ma fa che la sua punizione cada su di me e liberalo». Gli rispose il padre: «Figlio, va bene, accetto la tua sofferenza per placare la mia ira, vieni a soffrire e libererò tuo fratello»».

Che mostruosità! Un’immagine orribile e una distorsione orrenda del carattere di Dio. Nel ruolo del fratello maggiore, ho voluto includere anche un modello concettuale del mistero della croce, non perché necessariamente sbagliato, ma perché nella sua limitatezza è spesso frainteso. Come tutti i modelli non si tratta di una realtà inconfutabile, ma di qualcosa ideato per dare una logica al mistero della croce. Purtroppo è una logica che spesso si perde e finisce con l'intensificare ancora di più un'immagine già cupa del Padre. Ancora una volta si ottiene il risultato opposto di ciò che Gesù intendeva comunicare con la sua parabola, in cui il padre è sempre amorevole e misericordioso. Eppure, secondo la teologia di alcuni, Dio sarebbe come il padre della parabola distorta. Il suo immenso onore, giustizia e ira sono immensamente offesi dal peccato umano e richiedono un risarcimento immenso per essere pacificati. La mancanza di un tale risarcimento comporta la punizione eterna e infinita per avere leso un Dio infinito. L’ira di questo Dio è placata solo dal sacrificio di un figlio misericordioso. Ma che tipo di genitore sarebbe questo? Non di certo il padre di cui parlava Gesù. Certamente esistono dei modelli e spiegazioni migliori per il mistero della croce, seppure ognuno coi suoi limiti, altrimenti non sarebbe un mistero. Tempo permettendo ne considereremo alcuni in un altro studio.

Gesù immagine del Padre

Il Vangelo è, comunque, un messaggio d'amore e compassione. E' il Padre che si manifesta nel Figlio e insieme sono compassionevoli, misericordiosi e accoglienti verso tutti; specialmente con quelli che le religioni tendono a escludere perché ritenuti immeritevoli. A Nicodemo Gesù disse “Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui” (Gv 3: 17). Giovanni Battista, vedendo Gesù esclamò «Ecco l'agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo! (Gv 1:29). Il Padre e il Figlio sono in un’azione congiunta per salvare il mondo, e non in una saga mitologica in cui uno salva gli esseri umani dall'ira dell'altro. Dio non è diviso ma opera in Gesù per salvare l'intera umanità, come è scritto in Giovanni 12: 32 “E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me”. Quell'attirerò è la stessa parola greca ἑλκύω [elkyo̱], usata per descrivere la difficoltà che i discepoli avevano a tirare (elkyo̱) la rete in barca per la grande quantità di pesci che conteneva (Gv 21:6). La parola elkyo̱ è più correttamente tradotta in tirare o trascinare, piuttosto che attirare. Insomma Gesù stava dicendo che una volta crocefisso (innalzato) avrebbe inevitabilmente trascinato, o tirato, tutti quanti a sé.

Il libero arbitrio

C'è chi afferma che Dio vorrebbe tirare tutti a se ma non può perché il nostro libero arbitrio glielo impedisce. Secondo questa opinione la nostra testardaggine sarebbe più forte di Dio, che si sarebbe limitato, da parte sua, a non superare il limite della nostra libertà. Eppure ci sono vari esempi nella Bibbia in cui Dio interferisce con le scelte umane. Il più classico di questi è il caso di Paolo, un persecutore di cristiani che Dio fa cadere da cavallo, l’acceca e lo fa finalmente cambiare. Ci sono altri esempi in cui Dio si dimostra alquanto capace di raggirare l'ostacolo del libero arbitrio. La ragione per cui di solito non lo fa, è perché tramite la nostra libertà sta realizzando qualcosa di meglio. La ragione per cui si usa il libero arbitrio come scusa dell'inferno è perché si sono accettate, a monte, supposizioni sbagliate che non si è disposti a riconsiderare. Tempo permettendo, approfondiremo prossimamente di questo, delle ragioni del peccato e del diavolo. Intanto consideriamo che se il libero arbitrio, il peccato e il Diavolo fossero conseguenze irrimediabili, significherebbe che Dio avrebbe perso il controllo. Dio, insomma, non sarebbe più Dio ma ci sarebbero altre divinità che potrebbero sconfiggerlo rubandogli quasi tutto. L'ordine originale delle cose, anche degli angeli e delle creature spirituali antecedenti l'umanità, quello che esisteva prima della ribellione di Satana, non sarebbe, perciò, più ripristinabile e Dio ammetterebbe la sconfitta. Il diavolo e l'uomo avrebbero vinto. L'unica consolazione di Dio, secondo alcuni, sarebbe quella di distruggere irrimediabilmente tutti quelli che gli si sono ribellati. Che farsa, che trasposizione di concetti filosofici pagani, dualisti, gnostici e assurdi. Per quanto elaborate possano essere certe idee, non sembrano affatto il Cristianesimo.

La soluzione finale

Paolo parlò di un disegno Divino in cui tutto si aggiustava “Come, infatti, in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita.” Insomma, Gesù è l'azione riparatrice di Dio, prevista fin dall'inizio, che rimedia completamente quella distruttiva di Adamo. Paolo non dice “come tramite Adamo la morte è entrata per tutti, tramite Cristo la vita entra solo per alcuni, quelli che credono nella teologia giusta”. Nient’affatto! Paolo fa un paragone che non può essere frainteso, dicendo che quel che vale per tutti in Adamo, vale per tutti anche in Cristo. Nello stesso capitolo Paolo aggiunge “L'ultimo nemico a essere annientato sarà la morte” si sottintende, quindi, che le vittime della morte, subentrata da Adamo in poi, saranno liberate a vita. Il pensiero si conclude, poi, con la descrizione di un evento finale in cui il Padre dà ogni cosa a Gesù e “quando tutto gli sarà stato sottomesso, anch'egli, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti” (1 Cor 15: 22, 26 e 28).

Questo trascurato concetto si chiama apocatastasi, un'altra parola greca che significa ritorno allo stato originario. Questa idea, diffusa nei primi secoli di cristianesimo, ma poi soppressa in vari modi, è l'idea Biblica che completa il disegno del vero Dio supremo. Nella Bibbia la parola apocatastasi è usata in Atti 3,21 “Egli (Gesù) dev'esser accolto in cielo fino ai tempi della restaurazione di tutte le cose (apocatastasi), come ha detto Dio fin dall'antichità, per bocca dei suoi santi profeti”. Un brano veramente interessante, che non solo ribadisce quello che si è detto finora, ma che riporta dovutamente alle profezie dell'Antico Testamento, dove l'idea dell'eventuale redenzione di tutti i popoli era ricorrente. Per di più non c'è alcun accenno a un inferno eterno nell'Antico Testamento. Se questo esistesse davvero si suppone che almeno qualche riferimento o avvertimento ai popoli di allora, sarebbe stato dovuto, ma niente del genere.

Interessante il fatto che la maggior parte dei padri della chiesa primitiva credeva in questo concetto dell'apocatastasi, nella redenzione finale di ogni cosa. La parola vangelo, infatti, significa buona notizia ed era integralmente un messaggio universale di salvezza globale. Come può, invece, considerarsi “buona notizia” un vangelo che insegna la salvezza solo per i pochi e la distruzione eterna per la maggior parte dell'umanità? Ovviamente ci fu una trasformazione graduale del vangelo e fu da quel quinto secolo in poi, con la crescente influenza di una certa teologia latina, che l'idea dell'apocatastasi fu gradualmente abbandonata. A sostituirla subentrò quella di un inferno eterno dal quale non vi era scampo e in cui cadrebbe chiunque non avesse la “religione giusta”. Tale distorsione crudele prevalse nei secoli successivi, dove il terrore delle fiamme eterne oscurò completamente l'amore infinito di Dio. Quell'azione redentrice di Cristo che conduce all'apocatastasi, o restaurazione di tutte le cose, fu così ben soppressa in occidente che ci vollero secoli prima di riscoprirla. Fu dal 1700 in poi che si cominciò a riscoprire quel disegno originale, ripreso da teologi di spicco come Friedrich Schleirmacher, Karl Barth, Hans Urs von Balthasar (teologo favorito di Giovanni Paolo II), Joseph Ratzinger, Adriana Zarri, Paolo De Benedetti, Karl Rhaner e altri. Ciò non significa che questi non credano in un possibile inferno, ma semplicemente che concordano su quell'idea del primo cristianesimo in cui Dio redimerà ogni sua creatura in un'apocatastasi finale. Anche per chi di loro crede nell'inferno, in questo disegno Divino, non si tratterebbe di una condizione irrimediabile, ma di un ulteriore strumento di purificazione mirato a una redenzione finale.

Misericordia io voglio e non sacrifici” (Mt 9: 13)

Siamo tutti d'accordo che Dio non è solo amore ma anche giustizia, ma l'idea di una giustizia ed ira di Dio in uguale misura al suo amore, e che questa richieda un riscatto o sacrificio sostitutivo per appacificarla, rende Dio simile a certe divinità pagane del politeismo. Dio non è né diviso né schizofrenico, ma consistente con la sua essenza d'amore. La sua giustizia è sempre motivata dall'amore, come Gesù cercò ripetutamente di far capire ai religiosi dei suoi giorni “Andate a imparare che cosa vuol dire: Misericordia io voglio e non sacrifici” (Mt 9: 13).

I giudizi di Dio, per quanto meritati e severi possano essere, hanno sempre uno scopo amorevole, col buon fine di condurre anche il caso più disperato al pentimento e redenzione finale. In Isaia 45: 23 Dio disse “davanti a me si piegherà ogni ginocchio, per me giurerà ogni lingua”. Questo sembra non escludere nessuno, ma c'è chi lo immagina come l'evento in cui anche le schiere di demoni e dannati si piegheranno finalmente davanti a Dio in ammissione di sconfitta. Immaginarsi che questa resa finale avvenga solo per mera necessità di adempiere la giustizia divina, nega però tutto quello che il vangelo ci insegna sul Padre. In cristo non è il desiderio di giustizia, di vendetta e di placare l'ira di Dio, che prevale, ma l'amore e misericordia del Padre per ogni creatura. Come disse Paolo “Poiché la creazione con brama intensa aspetta la manifestazione dei figliuoli di Dio; perché la creazione è stata sottoposta alla vanità, non di sua propria volontà, ma a cagion di coLui che ve l'ha sottoposta, non senza speranza però che la creazione stessa sarà anch'ella liberata dalla servitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figliuoli di Dio” (Rom 8: 19 a 21). Insomma, Dio ha calcolato anche questa vita piena di problemi, ingiustizie e altro, perché sapeva di avere la capacità di portare ogni cosa a quel buon fine per cui valeva la pena attraversare tutto ciò. Una giustizia, quindi, molto più ampia di quella distorta dell'inferno, o quella soggettiva di questo mondo; una giustizia in cui l'amore creatore di Dio vince su ogni cosa e redime ogni cosa. Come l'apostolo Paolo insegnò “L'amore non fallisce mai - tre cose che non svaniranno: fede, speranza, amore. Ma la più grande di tutte è l'amore” (1 Cor 13: 8 e 13) e non l'ira e la giustizia.

Anche Paolo riprese le parole dei profeti “ogni ginocchio si piegherà davanti a me e ogni lingua renderà gloria a Dio” (Ro 14: 11) e spiega di Gesù “Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami: «Gesù Cristo è Signore!, a gloria di Dio Padre” (Fil 2: da 9 a 11). E come potrebbero tutti quanti, di ogni lingua e nazione, in cielo, in terra e sotto terra, lodare Dio se gran parte di essi fossero condannati alle fiamme eterne? Ovviamente l'inferno eterno non si adatta a queste parole che attraversano dall'Antico al Nuovo Testamento. La promessa che viene spesso ripetuta è, invece, quella dell'apocatastasi finale, in cui ognuno proclama “Gesù Cristo è Signore!” e, come sta scritto, nessuno può dire: “Gesù è il Signore', se non è veramente guidato dallo Spirito Santo” (1 Cor 12: 3). E' chiaro che l'immagine non è quella di un Dio iracondo che spinge i suoi nemici a prostrarsi, perché solo dall'amore può nascere la lode sincera. Non sono la sconfitta, la paura e il giudizio che sfociano in lode, ma la misericordia e la grazia. “Né alcuno avrà più da istruire il suo concittadino, né alcuno il proprio fratello, dicendo: «Conosci il Signore!». Tutti infatti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande di loro” (Ger 31: 34 e Ebr 8: 11).

Un Dio né ipocrita né schizofrenico


Leggendo vari articoli in cui si intervistavano partecipanti al fenomeno di un nuovo cristianesimo anonimo e del crescente declino delle istituzioni religiose classiche, ho notato una parola in particolare che usavano per descrivere quelle istituzioni di cui non desiderano far parte: “ipocrisia”. In un altro sondaggio avvenuto di recente negli USA, si chiedeva, invece, ai non credenti cosa pensassero dei credenti, e di nuovo prevaleva la stessa parola “ipocriti”. La stessa parola fu usata ben dodici volte da Gesù, nel Vangelo di Matteo, per descrivere i religiosi dei suoi tempi. Stranamente questa parola non appare fra le accuse scagliate contro i primi cristiani, anche nei periodi delle loro peggiori persecuzioni.

Cos'è successo da allora ad oggi? Cos'è che influisce? Cosa viene prima: l'uovo o la gallina? Intendo dire, è l'immagine di un Dio ipocrita che crea ipocrisia nei cristiani, o è tale ipocrisia che crea un'immagine analoga di Dio? Si potrebbe discutere sia in un verso o nell’altro, ma torniamo, ancora una volta, al semplice criterio del Vangelo, all'originale. Qui vediamo che Gesù insegna ripetutamente a perdonare i nostri nemici e ne dà esempio chiedendo al Padre di perdonare perfino coloro che lo uccidevano. Perdona persone corrotte, prostitute, peccatori di ogni genere e riprende, invece, i religiosi per la loro intolleranza verso gli emarginati e i poco di buono. Insegna anche a non resistere alla violenza e ne da l’esempio, ma poi che succede? Qualche secolo dopo il cristianesimo cambia, si riveste di potere, di eserciti e crea la teologia che gli serve. La fede, quindi, cambia ed è ora ammissibile, perfino ammirevole, imporla con le armi. Il dissenso non è più tollerato e gli eretici si possono bruciare; ovviamente per salvare coloro che potrebbero cadere nell'eresia e finire in un inferno eterno. I conti tornano per il nuovo potere “cristianizzato” ma non per il vangelo in cui è subentrato, tramite un’abile teologia, la stessa ipocrisia che Gesù aveva condannato.

E' perciò comprensibile che chi conosce la teologia latina dal primo medioevo in poi, si chieda se in effetti il Dio di cui parla non sia ipocrita, o schizofrenico. Chi altri, infatti, chiederebbe ai suoi figli di perdonare i loro nemici, ma condannerebbe i propri alla tortura di un inferno eterno? Chi altri chiederebbe ai suoi figli di porgere l'altra guancia a chi li percuote, ma invierebbe eserciti a imporre il proprio volere politico? Chi altri insegnerebbe a non giudicare, ma poi giustizierebbe brutalmente chi ha idee contrarie? Insomma, le inconsistenze sono troppe e si finisce col dubitare seriamente di una tale divinità. Non è difficile capire chi non voglia più sentir parlare di un tale Dio.

L'anticlericalismo e il nuovo cristianesimo anonimo, sono in parte una reazione naturale a quel che si proclamava in tal modo “cristianesimo”. I paladini delle antiche tradizioni additano prontamente i nuovi eretici della laicità e dei cristianesimi alternativi, li incolpano per la decadenza morale della nostra società, ma c'è a monte un'altra decadenza che ne è pure causa, ed è quella dell'immagine di Dio. Un’immagine giustamente criticata, perché forgiata sullo stampo di sistemi antiquati e corrotti che si autodefinivano cristiani, che ingoiavano i cammelli, ma soffocavano nei moscerini. A fatica si riesce oggi a separare le cose, a far capire a un non credente che Gesù non è quello che certi sistemi hanno descritto, che Dio non è dalla parte delle nazioni e culture più potenti, certamente non di quelle prepotenti. Che Dio è il Dio di tutti e ama tutti indistintamente, curandosi di ogni sua creatura, e che ha promesso che chi si esalta sarà umiliato, beati i poveri, gli umili, gli affamati, gli assetati, che gli umili erediteranno la terra, gli ultimi saranno primi e i primi ultimi, le montagne saranno abbassate e le valli innalzate, e ogni ginocchio si piegherà. Per questo la vita è assai efficace: prima o poi ci pieghiamo tutti e scopriamo che Lui era sempre lì che ci aspettava, pronto ad accoglierci, a rialzarci e a introdurci a una nuova vita. Forse per questo gli umili erediteranno la terra, perché nella nuova terra del ritorno all'ordine originale, saremo tutti più umili, dopo che la nostra presunzione sarà dovutamente finita all'inferno, cioè bruciata.

A mio avviso è arrivata l'ora di abbracciare il Dio dell'apocatastasi. Il Dio che ci siamo lasciati indietro per farcene uno a nostra misura. E' ora di riprendere l'immagine che ci perviene dal vangelo e lasciar perdere quella degli inferni danteschi. E' ora di amare come Gesù ci ha detto di amare, perché è da questo che Lui disse si sarebbero riconosciuti quelli che operano in nome suo. E' ora di restituire il primato al Dio d'amore perché è l'amore che non fallisce mai e alla fine vincerà. Se l'inferno c'è, sappiamo che un giorno sarà vuoto. Se Dio è come l'ha descritto Gesù, allora sappiamo che non sarà mai soddisfatto col 99% di successo e neanche col 100%, ma da buon gestore ricaverà il 1000% dalla nostra esperienza di vita. Se Dio è Dio, è capace di rigenerare ogni cosa, perfino il diavolo, appena sarà servito al suo scopo.

martedì 10 gennaio 2012

La Religione Ancora Più Semplice - Appendice

Materiale aggiuntivo con citazioni e riflessioni attinenti

Il teologo francese Jaque Ellul, partendo dall'analisi della società laica e religiosa, nota come in esse si esige aderenza a un determinato comportamento morale, poi spiega come il comportamento cristiano, invece, non sia morale ma spirituale, non imperativo, dettato da dei comandamenti, ma indicativo, cioè abbiamo un esempio nel vangelo ma l'attività è spirituale, ed è la manifestazione dell'incarnazione di Cristo in noi. Per Ellul la vita cristiana non è un allineamento a uno standard predefinito di bontà, ma è l'espressione del carattere di Dio. La condotta cristiana non è il conformarsi a una caratterizzazione ideale o a un sistema prescritto, ma è sempre una risposta vivente alla Parola di Dio, che è sempre la rivelazione di Dio in Gesù Cristo.

La vita cristiana è, perciò, un'espressione sempre unica, spontanea e nuova dello Spirito di Cristo. "La fede cristiana", secondo Ellul, "ci dice che dovremmo vivere, non come dovremmo vivere." La responsabilità di ogni singolo cristiano è di essere disposti a scoprire come lo Spirito in azione possa essere incarnato negli eventi e conflitti del mondo di oggi. Il vivere cristiano è la libera espressione dell'incarnazione, piuttosto che la schiavitù del conformismo morale.

John R.W. Stott:
La cristianità senza Cristo è un forziere senza tesoro, una cornice senza il dipinto e un corpo senza respiro.

James A. Fowler:
La Bibbia non è un semplice libro religioso contenente idee ispirate, insulsaggini pie e istruzioni morali e non è neanche un libro "sacro" che va equiparato come riverenza e autorità a Gesù stesso, confondendo la Parola vivente con la parola scritta. Piuttosto, la Bibbia è una raccolta di scritture ispirate che contengono un resoconto accurato della rivelazione di Dio in Gesù Cristo, e dell'implicazione di questo per la vita degli uomini di ogni epoca.

Juan Carlos Ortiz:
Abbiamo bisogno di una nuova generazione di cristiani che sanno che la chiesa è centrata intorno a una persona che vive dentro di loro. Gesù non ci ha lasciati semplicemente con un libro dicendoci “vi lascio la Bibbia. Cercate di scoprire tutto quello che potete da questa scrivendo concordanze e commentari”. No, non disse questo, ma promise “Ecco, io sono con voi sempre - Non vi lascio solo con un libro. Io sono lì, nei vostri cuori”. - Dobbiamo semplicemente sapere che abbiamo l'Autore del libro dentro di noi.

William Barclay:
Ci fu un errore nel quale la Chiesa primitiva non corse mai il pericolo di cadere: in quei primi giorni le persone non pensarono mai che Gesù Cristo fosse un personaggio in un libro; non pensarono mai di lui come di qualcuno che fosse vissuto e morto, la cui vicenda fosse raccontata e tramandata nella storia, come la storia di qualcuno che avesse vissuto e la cui vita fosse finita. Non pensavano di Lui come di qualcuno che fu, ma di qualcuno che è. Non pensavano di Gesù Cristo come di qualcuno di cui bisognasse discutere, dibattere e contendere gli insegnamenti, ma pensavano di Lui come di qualcuno di cui si potesse godere la presenza e con cui si potesse provare l’unione costante. La loro fede non era fondata su un libro, la loro fede era fondata su una persona".

Manfred Haller:
Nel linguaggio moderno, la chiesa è un'istituzione, una forma di comunità Cristiana, un insieme di persone che credono in Cristo (o che hanno almeno qualche concetto di Dio) che si riunisce regolarmente. Quando parliamo di chiesa, immaginiamo immediatamente un gruppo di persone che, in base ad una certa comprensione comune o accordo, hanno formato un’associazione Cristiana... Quando invece Paolo pensava alla chiesa, pensava a Cristo. L'idea che la chiesa potesse essere qualsiasi altra cosa al di là dell'incarnazione di Cristo non gli attraversò mai la mente.

Dietrich Bonhoeffer:
La Chiesa è la presenza reale di Cristo. Una volta che abbiamo capito questa verità siamo sulla buona strada per recuperare un aspetto della Chiesa che, purtroppo, è stato trascurato in passato. Dovremmo pensare alla Chiesa non come un’istituzione, ma come una persona, anche se naturalmente una persona particolare.

Karl Paul Donfried:
La chiesa primitiva non chiedeva ai suoi seguaci di imitare o semplicemente osservare alcuni principi statici del cristianesimo, ma, piuttosto, di comprendere il significato della venuta di Cristo, in modo da realizzarne dinamicamente le implicazioni per la situazione in cui vivevano. La libertà di questa realizzazione e applicazione alla situazione esistenziale concreta, può essere compresa solo quando si riconosce che questi primi cristiani non adoravano un qualsiasi profeta di Nazareth morto. Anzi, essenziale alla loro stessa esistenza era la convinzione che questo Gesù era stato risuscitato dai morti da Dio, era ora il Signore della chiesa, ed era presente nella sua stessa vita. E' questa presenza del Risorto che spinse e permise alla chiesa primitiva di impegnarsi così vigorosamente nell'insegnamento e proclamazione dinamica".

Dietrich Bonhoeffer:
Cristo non è un canone secondo il quale bisogna modellare il mondo intero. Cristo non è l'annunciatore di un sistema di ciò che sarebbe bene oggi, qui e in ogni momento. Cristo non insegna un'etica astratta che va messa in pratica a tutti i costi. Cristo non fu essenzialmente un maestro e legislatore, ma un uomo, un vero uomo come noi. Non è quindi la Sua volontà che noi, nel nostro tempo, siamo aderenti, esponenti e sostenitori di una dottrina precisa, ma che siamo uomini veri davanti a Dio ... Quello che Cristo fa serve proprio a dare effetto alla realtà. Egli stesso è l'uomo reale e, di conseguenza, il fondamento di tutta la realtà umana".

Jacques Ellul:
Non esistono cose come “principi cristiani”. C'è la Persona di Cristo, che è il principio di tutto. Se vogliamo essere fedeli a Lui, non possiamo pensare di ridurre il cristianesimo a un certo numero di principi, le cui conseguenze si possono logicamente dedurre. Questa tendenza a trasformare l'opera del Dio vivente in una dottrina filosofica è la tentazione costante della teologia, e la loro massima slealtà è quando trasformano l'azione dello Spirito, che porta frutto in se stesso, in un’etica, una nuova legge, in “principi” che devono solo essere “applicati".

W. Ian Thomas:
Gesù Cristo e la vita eterna sono sinonimi, e la vita eterna non è altro che Gesù Cristo stesso... Se si ha del tutto la vita eterna, significa semplicemente che si ha il Figlio, Gesù Cristo... La vita eterna non è una particolare sensazione interiore! E non è la destinazione finale cui si va quando si muore. Se si è nati di nuovo, la vita eterna è quella qualità di vita che si possiede adesso... Lui è quella vita!

Maxie Dunnam:
... vedere vite conformarsi al modello di Gesù, non è l'essenza del cristianesimo e non coglie il punto. Questo è stato il grande fallimento della Chiesa cristiana a partire dal secondo secolo. Evidenziare la sequela di Gesù come cuore del cristianesimo, significa ridurlo a una religione della morale e dell'etica e spogliarlo del suo potere. Questo è successo più e più volte nella storia cristiana: la riduzione del ruolo di Gesù a solo un esempio da seguire".

Juan Carlos Ortiz:
Smettila di cercare di copiare il Gesù di 2000 anni fa, e lascia che il Cristo vivente scorra attraverso il tuo carattere. Sei un'espressione del Cristo glorificato ed eterno che vive in te."

James Fowler:
Siamo contenti di starcene a guardare e permettere che la "religione cristiana" e la sua teologia vuota e sterile rappresentino il cristianesimo in un modo così privo di vita e distorto? Ora è il momento di affermare senza vergogna che "il cristianesimo è Cristo", e di viverlo personalmente consentendo alla vita e alla resurrezione di Cristo che si "manifesti nel nostro corpo mortale" (II Cor. 4:10,11).

La fede non è il solo credere nelle dottrine o nelle idee giuste. La fede non è il solo affidarsi a ciò che non può essere dimostrato. La fede non è il solo salto esistenziale nel non verificabile. Piuttosto, la fede è la volontà determinata di esercitare la nostra libertà di scelta per essere ricettivi e disponibili alla presenza e attività di Dio nella nostra vita e, quindi, a partecipare al dramma divino dell'amore. La fede è la nostra ricettività all'attività di Dio, sia inizialmente sia sempre in seguito.

Una delle maggiori tentazioni dell'avversario è di farci accettare la "religione" invece della dinamica vitale di partecipazione al dramma divino dell'amore. Invece di un rapporto interiore di amore, ricolmo di gioia e pace, il tentatore vi sostituisce un regime esteriore di ordine ripetitivo, un elenco obbligatorio di norme e regolamenti, pieno di "devi" e "non devi" nell'esibizione del comportamento ottenuto tramite le varie formule. "Hai bisogno di leggere di più la Bibbia, devi pregare di più, devi andare in chiesa di più, devi dare più soldi", ammonisce il diavolo (vestito da predicatore). Se accettiamo la schiavitù e la necessità di questa religione del "giusto-credere" e “giusto-fare", poi si finisce troppo occupati nel “gioco della chiesa" che non abbiamo più tempo per ESSERE semplicemente amanti di Dio. Tutti i cristiani soccombono, ogni tanto, all'adulterio spirituale con le forme esteriori della religione, con le sue ideologie, moralità, e attività formate da principi, proposizioni e programmi. Dobbiamo riconoscere che la religione è la prostituzione di un rapporto d'amore autentico con Dio.

La vita cristiana è caratterizzata dalla spensieratezza (non dalla pesantezza dell'imposizione), dalla spontaneità (non dalla routine monotona), dal mistero (non dall'informazione sterile), dalla scoperta (non dal disinteresse), dall'avventura (non dalla monotonia), dall'anticipazione (non dalla disillusione), dalla libertà (non dalla schiavitù), dalla trasparenza (non dall'occultamento), dall'intimità (non dalla freddezza), e l'estasi (non dall'angoscia). Se questo non è come state vivendo la vita d'amore del cristianesimo, allora forse dovreste fare un passo indietro e considerare se la falsa maschera della religione non vi abbia fatto cadere in falso ruolo.

"Dio è amore" e ogni manifestazione dell'amore genuino sarà l'espressione attiva del Suo proprio Essere. Molti credenti pensano erroneamente di dovere "vivere come Gesù" e "amare come Gesù", seguendo il Suo esempio. Ma è 'impossibile essere "come Cristo" cercando umanamente di generare un comportamento cristiano. E' il Signore vivente Gesù che vuole esprimere il suo carattere divino d'amore nella nostra vita. La vita cristiana non è un’imitazione di Gesù, ma, piuttosto, una "manifestazione della vita di Gesù nel nostro corpo mortale" (II Cor. 4:10,11). Nessuno può vivere la vita cristiana senza la dinamica della grazia di Dio. Tramite la fede si è ricettivi al derivare e ottenere ogni cosa da Lui.

Il diventare cristiani non consiste in un attaccamento esteriore a una organizzazione sociale chiamata "chiesa". Né si attua tramite l'assenso mentale a dei canoni, storici o teologici, della fede. L'adeguamento del comportamento e la ripetitività ritualistica non sono l'essenza del diventare cristiani.

La necessità primaria della persona non è più conoscenza e educazione, né l'auto-realizzazione e l'auto-miglioramento. Il bisogno dell'uomo è di essere re-vitalizzato con la vita stessa di Dio nella persona del Suo Figlio, Gesù Cristo. Lo Spirito di Dio dona la vita (II Cor. 3:6) al nostro spirito e fa si che diventi vivo (Rm 8:10) con "novità di vita» (Rm 6:4). Chi in questo modo diventa cristiano viene "trasportato dalla morte spirituale alla vita spirituale" (I Giovanni 3:14).

La vita spirituale che il cristiano riceve è la vita divina di Gesù Cristo. Gesù disse: "Io sono la via, la verità e la vita" (Giovanni 14:6). "Chi ha il Figlio ha la vita, chi non ha il Figlio di Dio non ha la vita" (I Giovanni 5:12). Questa "vita eterna che è in Cristo Gesù" (Rm 6:23) è la vita spirituale che Gesù è venuto a portare (Giovanni 10:10) per ripristinare l'uomo al disegno di Dio per l'umanità. La vita eterna non è una merce o uno stato di esistenza che si riceve dopo la morte fisica, ma è al presente la vita di Gesù Cristo nel cristiano, con il continuum eterno della perpetuità.

Come avviene questa realtà spirituale? Come si attua e cosa la provoca? Non esiste una procedura pratica o psicologica o una formula da seguire alla perfezione per diventare cristiani. Non avviene tramite una procedura pratica dell'andare all'altare in risposta a un invito, o alzando la mano, o ripetendo una "confessione di fede" prestabilita, o ricevendo un battesimo con acqua, anche se questi si possono fare per indicare o accompagnare la propria risposta a Gesù Cristo. Né una risposta psicologica di un assenso mentale a dei canoni storici e teologici, né le esperienze soggettive dell'emotività umana possono costituire il mezzo e il modo di rispondere a Cristo.

Diventare cristiani è qualcosa di personale che si riceve venendo a Dio in fede. La fede non è il credere nell'accuratezza di certi dati concernenti Gesù Cristo, né l'avere un'esperienza esistenziale estatica. Piuttosto, la fede è la scelta volitiva di essere ricettivi all'agire di Gesù Cristo, disposti a ricevere l'efficacia redentrice della morte di Cristo per noi, e disposti a ricevere la vita di Cristo nel nostro spirito. "A tutti quelli che l'hanno ricevuto, egli ha dato potere di diventare figli di Dio, a coloro che credono nel suo nome, che sono nati ... da Dio" (Giovanni 1:12,13). "Avendo creduto, siete stati suggellati in Lui con lo Spirito Santo della promessa" (Ef 1:13).

Ogni persona che riceve Gesù Cristo e diventa un cristiano è certa della presenza spirituale di Cristo e del suo potere. Gesù dichiarò "Ecco, io sono con voi sempre, fino alla fine del mondo" (Mt 28,20). "Cristo, la potenza di Dio" (I Cor. 1,24) "lavora dentro di noi" (Ef 3:20).

L'essere e il vivere da cristiani non è un esercizio religioso di conformità all'esempio della vita storica di Gesù Cristo, sforzandosi di essere simili a Cristo. Cercare di adeguare il proprio comportamento a quello di Gesù non è niente di più che un egocentrico tentativo di copiare il comportamento di un altro. La vita cristiana non è un’imitazione di Gesù, ma è la manifestazione della sua vita e del suo carattere del nostro comportamento, "che la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo mortale" (II Cor. 4:10,11).

Tra i cristiani c'è la tendenza costante di mettere in discussione le proprie responsabilità, ciò che si dovrebbe fare per vivere la vita cristiana. Non è quello che facciamo, ma quello che Lui fa che costituisce il vivere la vita cristiana. Gesù disse ai Suoi discepoli: "Senza di me, non potete fare nulla" (Giovanni 15:5). Palo, un attivista religioso, se mai ve ne fu uno, ammise "non però che da noi stessi siamo capaci di pensare qualcosa come proveniente da noi, ma la nostra capacità viene da Dio" (II Cor. 3:5).

Il cristianesimo è Cristo! La vita cristiana è la vita di Gesù Cristo, vissuta attraverso il nostro comportamento. La vita cristiana non è un progetto. La vita cristiana non è uno sforzo promozionale. La vita cristiana non è una panacea. La vita cristiana non è correttezza. La vita cristiana è una Persona, Gesù Cristo. La vita cristiana è l'effetto della presenza ontologica e dell'attività dell'Essere e Vita del Signore Gesù risorto.

Spiegando ai suoi discepoli la loro incapacità di riprodurre la vita cristiana, Gesù indicò, "Senza di me, non potete far nulla" (Giovanni 15:5). Non c'è niente che un cristiano possa originare o attivare che costituisca o dimostri il cristianesimo, che si qualifichi come comportamento cristiano, o che glorifichi Dio. "Io sono la vite e voi i tralci" (Gv 15:5) è l'analogia che Gesù usò per illustrare il bisogno di far scorrere il Suo sostegno vitale attraverso il comportamento fisico del cristiano, per cui il cristiano possa portare (e non produrre) il frutto del Suo carattere.

In Cristo, e tramite il Suo Spirito, Dio conferisce, abilita, stimola e mette in atto tutti i comportamenti e azioni Cristiane come espressione dinamica della vita di Gesù Cristo. Il Cristianesimo è Cristo. Il vivere Cristiano è la vita e carattere di Gesù Cristo vissuti attraverso il Cristiano.

LA RELIGIONE ANCORA PIÙ SEMPLICE

Tempo fa scrissi La Religione Semplice, un manuale per lo studio biblico, per renderlo più accessibile, semplice e alla portata di tutti. Lo definii un “fai da te” perché offriva alcuni strumenti interpretativi basilari con i quali chiunque poteva affrontare lo studio Biblico, anche da solo. Nell'introduzione tenni a precisare che, sebbene alcune esperienze nel tempo mi avessero portato a maturare una comprensione più chiara, lineare e semplice, ero pur sempre consapevole di vivere in un continuo processo di apprendimento. Sapevo che questo comportava anche un continuo superamento di idee obsolete e condizionamenti precedenti; sapevo che nessun apprendimento poteva mai essere definitivo e che, perciò, neanche alcun insegnamento sarebbe mai potuto esserlo. Per questo, ora, scrivo di nuovo: per condividere alcune maturazioni che ho avuto nella mia comprensione di certi aspetti; per parlare di alcune cose che ho continuato a superare e per definire meglio quella semplicità di Cristo che ora vedo ancora più semplice.

Mi sarebbe difficile, però, descrivere quella maggiore semplicità che intravedo, senza prima indicare alcuni elementi che le si oppongono, che confondono e rendono la religione cristiana estremamente complessa. Come, a volte, è necessario abbattere prima di ricostruire, scavare per porre le fondamenta, come con una matassa intrecciata, di cui dobbiamo ritrovare l'inizio del filo per poterla districare, anche nel caso del cristianesimo, a volte, bisogna mettere tutto da parte e ricominciare dall'inizio: da Gesù. Da quell'inizio, che sia quello storico dell'incarnazione di Dio in Gesù di 2000 anni fa, o quello del nostro incontro personale con Lui, dobbiamo poi laboriosamente ricostruire. Dobbiamo sciogliere i nodi, rimettere le cose in ordine, separando l'essenziale dal superfluo, l'utile dall'ingannevole, chiedendo a Dio di aiutarci a cambiare le cose che vanno cambiate e a non cambiare quelle che non vanno cambiate, ma soprattutto, di aiutarci a riconoscere la differenza.

Affinché Dio possa esaudire questa richiesta occorre, sotto l'aspetto storico, ricalcare il cammino del cristianesimo e farci guidare da Lui a riconoscere dove le cose si siano aggrovigliate. Non occorre essere storici per questo, basta leggere i vangeli e un po’ di storia del cristianesimo per vederci abbastanza chiaro, per capire che sono sempre esistite due realtà diverse che camminavano parallelamente e davano l'impressione di essere un'unica cosa. Queste due realtà diverse sono il Cristianesimo e la cristianità. (Il teologo e filosofo Danese Kierkegaard fu fra i primi a definire il “cristianesimo” come espressione di rapporto ed esperienza intima con Cristo, e la “cristianità” come degenerazione del cristianesimo, o religiosità visibile ma senza Cristo).

Per attuare lo stesso processo nell'ambito della nostra esperienza personale, occorre, invece, riconoscere quale sia stato il nostro contatto diretto con Gesù, se c'è stato, e, pian piano, separare quell'elemento dell'azione di Dio in noi (la fede) dagli altri elementi delle nostre credenze umane (la cristianità) che ce ne confondono l'immagine. Ci sono aspetti religiosi che ci creano pregiudizi, che ci fanno assumere atteggiamenti e idee che noi prendiamo per scontato che siano cristiani, ma che, in realtà, non lo sono affatto. Questo processo personale è assai più delicato di quello storico e soltanto Dio può guidarlo perché è diverso da persona a persona. Pertanto, nelle prossime pagine, mi limiterò semplicemente ad analizzare l'aspetto storico, le cose da cui tutti possiamo imparare e che possono, a loro volta, stimolare anche il processo individuale.

Per chi dubitasse sul valore della storia, tengo a precisare che è estremamente importante e imprescindibile. Ognuno di noi vive una sua storia personale nella storia collettiva e ne è profondamente influenzato, che se ne renda conto o meno. La Bibbia è per la gran parte storia, da quella dell'Antico Testamento a quella dei Vangeli e degli Atti degli Apostoli. Le profezie, poi, sono tutte legate alla storia: quella passata e quella che sarà. Vi chiedo, quindi, la pazienza di seguire con me un breve riassunto storico del Cristianesimo.


LA STORIA

Sappiamo tutti come avvenne il primo Natale, e conosciamo anche una buona parte dei fatti concernenti Gesù da adulto, cosa fece e cosa insegnò. Sappiamo anche del suo scontro finale con i capi religiosi, che lo condannarono a morte, dopodiché ci fu l'evento più significativo, quello della sua resurrezione e ascesa ai cieli. Ecco, in sintesi, quell'avvenimento epocale che diede inizio a una nuova era. Fu qualcosa che durò solo pochi anni e che non avrebbe lasciato alcun segno se non fosse stato per qualcosa di più, ma scarsamente definibile, che agiva, per così dire, sotto la superficie visibile di quell'evento. Fu l'innescarsi di una nuova dinamica nel rapporto fra Dio e l'uomo, iniziata con la resurrezione di Cristo, che oltrepassò i limiti di quel periodo storico, di quella cultura, di quella religione e di quella tradizione. Questa dinamica diventò globale perché offriva un'esperienza vera e propria con Dio, qualcosa di concreto cui chiunque poteva accedere, in qualsiasi parte del mondo, in qualsiasi cultura e in diverse forme.

Dopo quei pochi anni di Gesù in terra come uomo, ci fu poi il fenomeno di quell'esperienza personale con Gesù che perpetuò l'evento iniziale e creò un'onda inarrestabile destinata a toccare ogni continente. Non si trattava di una religione, di una morale, di un'ideale, di una nuova etica o di una filosofia, ma di un evento che avveniva nella persona che, avendo udito di Gesù, si apriva poi a Lui, all'esperienza del Suo Spirito. Tengo a precisare, però, che non si tratta di esaltare un'esperienza mistico-emotiva come segno di fede. L'esperienza di Cristo non si può limitare a nessuna dimensione umana, sia emotiva sia intellettuale, che coinvolga i sensi in qualche modo; certo, non li esclude, in quanto anche i nostri sensi possono darci una misura di trascendenza, quando guidati dal trascendente, ma l'esperienza di Gesù è qualcosa di veramente personale e spirituale che non si può né limitare ai sensi, né definire con gli strumenti della nostra lingua. Non è possibile fissare la dinamica di quell'esperienza a una formula specifica, intellettuale o emotiva, perché Cristo vive in ogni cristiano come espressione unica di se stesso. La persona che vive questa esperienza, però, riconosce questa dinamica che attua fondamentali cambiamenti in lui, una sorta di rinascita, di riconfigurazione dei modi d'intendere e di vedere, che porta nuove prospettive e aspirazioni, nuovi desideri e intenti e una diversa comprensione delle cose.

Dalla pentecoste in poi il Cristianesimo consisteva di questa esperienza dinamica di Cristo che entrava a coabitare nella persona, agendo dall'interno come una forza nuova, e non dall'esterno come la religione impone con la sua morale, la sua etica e le sue regole. È chiaro che questo evento interiore avesse poi vari risvolti a seconda delle persone, degli ambienti e delle culture in cui esso avveniva. Per quanto fosse un'esperienza prettamente spirituale, le persone di varie culture e religioni cercarono poi d'interpretarla non solo con gli strumenti del vangelo, la storia di Gesù e i suoi insegnamenti, ma anche con gli strumenti della loro cultura, della religione precedente, della filosofia ecc. Per questo, fin dall'inizio, vi furono vari tipi di Cristianesimo derivanti da distinti processi sincretici.

Chi afferma che vi fosse una sola cristianità e che la varietà nel cristianesimo sia avvenuta soltanto secoli dopo, non conosce né la storia né la Bibbia. Gran parte del Nuovo Testamento è dedicata, infatti, a una fra le tante interpretazioni diverse e contrastanti del cristianesimo. Il primo cristianesimo era senza dubbio “ebraico”, molto legato all'antico testamento e alle leggi mosaiche, mentre il secondo fu “greco”, molto più filosofico, con elementi gnostici. Interi capitoli delle epistole di Paolo sono dedicati alla tensione esistente fra questi due cristianesimi diversi. Più tardi nacque e si distinse anche un cristianesimo “romano” più razionale, burocratico, uno “africano”, più ascetico, poi altri più “orientali”, “gnostici”, “dualisti”, ecc. Il cristianesimo è, infatti, molto incline ai sincretismi, cioè al mischiarsi con altre cose, perché il cristianesimo non è essenzialmente una religione, una filosofia o un ideale. Essere cristiani, alla sua origine, è l'esperienza di Cristo che entra nella persona che lo accoglie e sebbene questo sfugga alle definizioni classiche del pensiero umano, non sfugge però ai tentativi umani di dargli una forma concreta in religione, teologia, morale o etica. In questo modo si sono sviluppate le varie forme di cristianità che vediamo oggi.


STORIA E TEOLOGIA

Il tentativo umano di comprendere razionalmente e di definire grammaticalmente l'esperienza umana di Cristo, causò la nascita e l'evolversi della teologia. Quando sorsero incomprensioni, deviazioni e divergenze fra le varie forme di cristianesimo, per esempio quello ebraico e quello ellenico, iniziò il dibattito teologico. Paolo fu il primo a usare strumenti e ragionamenti teologici per dimostrare che l'antica religione ebraica era stata superata da Cristo. L'apostolo Giovanni, poi, usò strumenti della filosofia greca, come il concetto di logos per quel famoso prologo al suo vangelo, in cui definisce la divinità del logos che si fa carne in Cristo (Giov. 1: da 1 a 14). Da quell'inizio a oggi, alla teologia moderna, esiste un lungo e complesso cammino che vorrei spiegare e, per quanto possibile, semplificare.

So che la parola “teologia” spaventa un po’ e dà l'idea di qualcosa di riservato a un’élite di persone dovutamente accreditate. Molti pensano che non valga neanche la pena provarci, che sia una cosa troppo accademica, con un linguaggio tutto suo e comprensibile soltanto dai suoi intimi conoscitori. Ebbene sì, il tipo di teologia sistematica che viene insegnata nei vari istituti religiosi è, in effetti, qualcosa di penosamente complesso, una sorta di ramo specialistico, spesso fine a se stesso e scollegato da altri aspetti più salienti della fede cristiana. Non è questo tipo di teologia di cui intendo parlare e neanche desidero raccontare l'intera storia della teologia cristiana. Voglio semplicemente parlare dell'influenza in tutti i tempi della teologia sui cristiani. Voglio demistificarne la natura e mostrare che non è necessario studiare teologia per capirne le ragioni e la dinamica. Basta solo un po’ di storia per fare tanta chiarezza.

Per di più non basta dire “io ho fede, conosco Gesù e quindi non ho bisogno di altro, né storia né teologia” - è vero che conoscere Gesù è l'elemento essenziale, ma c'è un problema di fondo cui nessuno riesce a sfuggire, e lo spiegherò con un esempio: Ogni cristiano, cattolico, ortodosso o protestante, fa riferimento alla Bibbia quale fondamento della propria fede e vede in essa la parola di Dio. Chiunque la legga vede in essa elementi in comune con tutti gli altri, ma in gran parte ognuno vede nella bibbia anche la conferma della particolare teologia della sua chiesa d’appartenenza. Per quanto diversi i credi, le dottrine, i riti, i sacramenti, le tradizioni, le vie indicate per la salvezza ecc. il cristiano che legge la Bibbia vi trova la conferma del suo particolare tipo di cristianesimo, della chiesa in cui è cresciuto e da cui ha ricevuto una formazione teologica, anche se indirettamente. La persona può non avere mai letto niente di prettamente teologico eppure è profondamente condizionata dall'insegnamento dei teologi/padri della sua chiesa.

Perché questa diversità di forme, di pensiero, di teologia e d’interpretazione della Bibbia? Per due ragioni principali: La prima è che nella bibbia, in effetti, non c'è il fondamento per una sola teologia e un solo modo di vedere... faccio un esempio usando l'aspetto soteriologico, cioè della salvezza dell'anima. In un articolo di qualche anno fa intitolato "Il dono della salvezza", su Christianity Today, l'autore Timothy George sosteneva la teologia della giustificazione per grazia, definita anche salvezza per fede, e la dimostrava citando 23 versetti dal Nuovo Testamento. Altrove, in un altro articolo, lo studioso Ken Vincent, affermava invece che ci sono ben 139 versetti nel Nuovo Testamento che confermano il concetto di salvezza per grazia. Allo stesso tempo ci sarebbero anche 551 versetti che indicano la salvezza tramite le buone opere, con 389 di questi che sono parole di Gesù stesso. Poi enumera anche 178 versetti che indicano una salvezza universale, di cui 31 versetti che indicano che l'inferno non è permanente. Fa poi notare che una quarta posizione teologica, la dottrina della predestinazione, dispone di 77 versetti a suo favore. Queste sono tutte posizioni soteriologiche apparentemente diverse e tutte con abbondante scrittura a loro favore. Chi ha ragione? Chi è Napoleone? Ovviamente non è a colpi di scrittura che si può arrivare al consenso, altrimenti ci si sarebbe già arrivati.

La seconda ragione è che, come già detto, siamo tutti influenzati dal nostro particolare ambiente teologico, che sia esso cattolico, ortodosso, protestante o altro. Chi fa esperienza di Cristo all'interno di una di queste realtà, assimila, poi, il modo d'interpretare la sua esperienza dalla teologia di quella particolare chiesa. Per esempio, il cattolico che fa esperienza di Cristo, allega alla sua esperienza anche l'intero bagaglio delle credenze con i dogmi, i sacramenti e le altre particolarità prettamente cattoliche. L'ortodosso fa lo stesso con le sue e altrettanto fa un protestante o altro.

Mi rendo conto che sto usando stereotipi per niente esplicativi delle varie differenze e spero che non vi si dia troppo importanza. Il mio intento non è quello di descrivere o valutare i diversi cristianesimi, ma di dimostrare come questi aspetti della diversità si associno e diventino quasi inseparabili dall'esperienza reale di Cristo che, d'altronde, accomuna ogni vero cristiano che accoglie lo Spirito di Dio in sé.

All'origine della diversità stanno vari fattori culturali, storici e politici, ma quello che ha definito, codificato e preservato la diversità è stato il lavoro dei teologi, persone che hanno dato forma all'attuale pensiero delle varie confessioni. Noi tutti siamo profondamente influenzati dalla teologia a noi più vicina, anche le persone meno religiose. Perfino coloro i quali semplificano al massimo e affermando di non credere a nient'altro che alla Bibbia, serbano in loro idee teologiche di cui trovano conferma nella scrittura, ma non perché palesi e inequivocabili, ma perché ricevute in precedenza. Questo non è di per sé negativo, ma è qualcosa di cui bisogna riconoscerne la natura soggettiva, dovuta alle particolari circostanze di un determinato ambiente religioso.

Ugualmente, la teologia, come studio di Dio, non è di per sé qualcosa di cui diffidare perché ha anche contribuito sostanzialmente a una migliore articolazione delle cose pertinenti a Dio, guidando spesso a una migliore comprensione della Sua parola. Cionondimeno, c'è anche un lato oscuro e fuorviante di cui dovrò parlare un po’ per aiutarci a semplificare certe complessità che c'influenzano negativamente e ci distraggono dalla vera immagine di Gesù.

Anch'io, per anni, non osavo considerare interpretazioni teologiche alternative a quelle in cui ero cresciuto, poi decisi di addentrarmi un po' nelle opere dei teologi più conosciuti. Più leggevo e più mi stupiva il processo con cui alcuni erano arrivati a quelle conclusioni che noi oggi prendiamo per scontate. Quello che mi sorprendeva, e continua a sorprendermi, è come, utilizzando i criteri dell'argomentazione logica, della scolastica e filosofia Aristotelica, i teologi potessero arrivare ad affermazioni dogmatiche su cose assolutamente inscrutabili e indimostrabili. Ora ammetto che leggendo un particolare teologo e seguendo il suo ragionamento logico, inevitabilmente si arriva alle sue stesse conclusioni. La convinzione però cade quando si legge un altro teologo che trae conclusioni opposte. Le diversità di opinioni fra i vari teologi si scontra con il loro tono sicuro e rende alquanto insicura la capacità intellettiva di razionalizzare Dio e la fede.

Mentre il semplice racconto di Gesù è in grado di generare l'esperienza concreta di Dio, le parole erudite dei teologi non danno gli stessi risultati: a volte aiutano, ma spesso confondono. Quel che più confonde è come diversi teologi hanno usato le stesse scritture per dimostrare opinioni diverse. Con sforzo umano, intellettivo, tramite tecniche di studio, metodi di analisi razionale e la costante contrapposizione di argomentazione e contro-argomentazione, i teologi articolavano e solidificavano la loro particolare posizione. A volte prevaleva la necessità di contrastare la teologia di una cristianità diversa e squalificarla come eresia, almeno nell'ambito della propria confessione. Spesso esisteva, infatti, una vera e propria battaglia intellettiva combattuta con le armi della dialettica, della retorica e della logica. Il fine perseguito non era più l'amore di Dio, ma far prevalere, tramite la ragione, la propria idea contro quella di un avversario. La ragione era così, se pur sempre velatamente, elevata a divinità e la rivelazione di Cristo, manifesta in esperienza personale dello stesso, era offuscata in quella gara per stabilire razionalmente il concetto teologico vincente.

Questo fu lo stato di cose con la maggior parte dei concili avvenuti dal quarto secolo in poi e in cui si stabilirono i principali dogmi del cristianesimo. Alcuni di questi concili furono vere e proprie battaglie ideologiche, con una fazione che prevaleva sull'altra o viceversa in tempi successivi. Ci furono le scomuniche reciproche dei rappresentanti di varie fazioni, ci furono lotte e sotterfugi a non finire e, infine, ci volle la forza politica di Roma, la spada insomma, per mettere tutti (o quasi) d'accordo. Chiaro è che anche Roma aveva degli interessi politici e voleva stabilire l'uniformità teologica e istituzionale per una migliore gestione dell'impero. L'intervento degli imperatori (Costantino, Teodosio, ecc.) aiutò così a stabilire l'ortodossia ufficiale e mise a tacere le maggiori voci di dissenso, le cosiddette prime eresie, ma neanche la forza politica e organizzativa di Roma fu però sufficiente a garantire la completa uniformità del cristianesimo. Vi furono interminabili tentativi di formulare una teologia unica e ufficiale, la cosiddetta ortodossia, articolandola nei vari “simboli”, nel cosiddetto “credo”. Questi venivano man mano “perfezionati” ed elaborati nella loro definizione legalistica, al fine di non lasciare alcuno spazio ai fraintendimenti, all'eresia che si era voluto eliminare. Era comunque una forzatura e come tutte le forzature ebbe solo risultati esteriori, parziali e temporanei.

Il connubio fra politica e cristianesimo mostrò presto la sua contraddittorietà. Nell'anno 381 l'imperatore Teodosio attuò un’ulteriore forzatura dichiarando illegale qualsiasi altra cristianità o altra religione oltre a quella di Stato, ufficialmente approvata. Da perseguitati, i cristiani divennero persecutori di chi era pagano e di chiunque, pur cristiano, non seguisse la teologia ufficiale. Quest'ondata d’intolleranza orchestrata dallo Stato e dalla sua confessione ufficiale, sfociò nel primo martirio di un cristiano da parte di altri cristiani. Nell'anno 385, Priscilliano, un vescovo della Gallia che osò differire sulla formulazione ufficiale del concetto trinitario, fu il primo cristiano a essere condannato a morte per eresia.

Gli interessi politici avevano spinto l'impero ad appoggiare il progetto di un cristianesimo unico. La diversità era espressa in varie interpretazioni teologiche che alimentavano le diatribe fra le molte fazioni. La teologia fu dunque il campo in ci si era adoperati per appianare le differenze, cosa che non fu né facile né mai pienamente attuata. Si era trattato di stabilire quale fosse la teologia “giusta”, cioè ortodossa, e quale quella “sbagliata”, cioè eretica. Il fatto era che ognuno considerava la propria fede ortodossa e le teologie vincenti non furono necessariamente quelle della maggioranza. Le cosiddette eresie non erano la religione di qualche minoranza presumibilmente settaria che seguiva delle credenze strane, ma si trattava di grosse fette del Cristianesimo, a volte maggioritarie.

In quel difficoltoso e forzato cammino per arrivare a una teologia ufficiale, tutto si era ridotto a un confronto e a una gara intellettiva per dimostrare e imporre un'idea vincente. Tutto si era imperniato sulla capacità di intendere e di articolare correttamente “la fede” come se “la fede” consistesse principalmente nell'assenso mentale a una particolare dottrina. Dando così tanta importanza all'articolazione precisa di un credo, si finì col distogliere la fede dal suo contesto originale, trasferendola in un nuovo concetto di cristianità, la cui ortodossia non è per niente certa. Sebbene la teologia vincente facesse apparire tutto più lineare e razionale, in realtà si era perso qualcosa di più importante ma indefinibile, elusivo e incontrollabile. Si era perso Cristo come centro del Cristianesimo e così si era perso l'inizio del filo e la matassa si aggrovigliò enormemente. Molti hanno definito quel periodo storico, in cui i cristiani salirono dall'arena (quali perseguitati) alla gradinata (quali persecutori), come il momento in cui il Cristianesimo si trasformò in mera cristianità.

Quell'unità artificiosa andò man mano sfaldandosi quando quella imperiale, che l'aveva creata, si ruppe. L'inevitabile frazionamento che avvenne da allora, fece sì che, fra le varie forme di cristianesimo che andavano man mano sviluppandosi, ognuna utilizzasse quegli stessi criteri iniziali per dimostrare di avere l'unica “vera fede” e per marchiare quella del concorrente come eretica.


L'ESSENZA ELUSIVA DEL CRISTIANESIMO

Riflettendo su tutto ciò, è doveroso chiedersi se in realtà essere cristiani consista così criticamente e principalmente in aderire a idee, credi, dottrine e teologie - le cose con cui i cristiani si sono combattuti per secoli – o se non ci sia qualcosa di più determinante che sfugga all'attenzione e, a questo punto, offro l'inizio della mia tesi per una “religione ancora più semplice”. A mio avviso, la risposta a questa domanda è che, certo, l’essere cristiani può anche comportare l’adesione a idee e concetti teologici, ma la Cristianità non è un'ideale, un'etica, una morale, una filosofia o una teologia. La Cristianità è essenzialmente e solamente Cristo in noi, la dinamica del suo incarnarsi in noi che diventa esperienza di vita, non teoria ma potenza dello spirito. Il tutto è così semplice che il teologo e il filosofo faticano a chinarsi abbastanza da poterlo recepire, principalmente perché sono convinti di poterlo capire intellettualmente, mentre questo tutto va vissuto. A ragione Gesù disse che i bambini lo capivano meglio (Mat. 11: 25).

Sì, è vero che nel cristianesimo c'erano state alcune idee un po’ strane, alcune di quelle che ora chiamiamo “eresie”, ma l'imposizione di una teologica unica e la loro abolizione non risolse il problema, anzi diede impeto ad una nuova forma di “eresia”: la cristianità di massa. Con la sponsorizzazione della politica imperiale, questa nuova religione che valutava la quantità, i numeri, il successo, la forma, gli edifici, la pompa, invece che l'esperienza di Cristo, prese il sopravvento. La cristianità, quell'espressione imitativa del cristianesimo, sostituiva la reale esperienza di Cristo con dottrine, tradizioni, riti, costumi e un elaborato pensiero teologico che la giustificava e le faceva apologia.

Nel forzare un'unica comprensione di Dio, tramite la teologia ufficiale, si sostituì Cristo con un'idea, un credo da seguire alla lettera, una morale, un'etica e una religione ufficiale. Per quanto questi facessero riferimento a Cristo, articolando il credo in maniera sempre più complessa e applicandovi i criteri della filosofia ellenica, si stava pian piano attuando un sincretismo sempre più accetto alle popolazioni dell'impero. Essendo poi che queste venivano sempre più insistentemente spinte alla conversione, si avviò anche un processo di cristianizzazione del paganesimo, cioè del rivestire a cristianità quelle tradizioni e costumi pagani che cristiani non erano. In fondo questo sincretismo apparente era (e rimane) l'unica forma di cristianesimo accessibile a chi non lo voleva ma lo subiva per imposizione o pressione sociale (e per chi oggi lo riceve come eredità sociale).

Quell'esperienza che Gesù aveva descritto a Nicodemo (Giovanni 3) e che si era manifestata di lì a poco con la pentecoste era in gran parte non considerata. L'impero Romano era ora riuscito a fare di quell’esperienza personale qualcosa di più concreto, terreno, palpabile, e allettante a ogni gusto religioso. Il cristianesimo era ora più attraente per chi era abituato alla sacralità dei templi e dei riti religiosi; per chi era attratto dall'intellettualismo della filosofia; per chi desiderava l'emotività mistica dell'ascetismo, o la soprannaturalità superstiziosa dell'animismo e del culto di oggetti. Insomma, il nuovo cristianesimo offriva tutte quelle cose con cui la gente era abituata a identificare la spiritualità. Era così diventato un prodotto multiuso, con qualcosa per tutti, ma nell'oggettivare questi elementi separati che venivano sempre più identificati con l’essere cristiani, si era perso quell'indefinibile, indescrivibile, incontrollabile e non addomesticabile elemento che sfugge a qualsiasi controllo... lo Spirito di Dio.

A questo punto vorrei riprendere l'inizio del filo, nelle parole con cui Gesù stesso descrisse ciò che era venuto per portare. Nel vangelo di Giovanni, terzo capitolo, si racconta la storia di un incontro che è fondamentale per la nostra comprensione di chi è Gesù e qual è l’essenza del Cristianesimo. Cito il capitolo e includo alcuni commenti, fra parentesi, per facilitarne la comprensione:

C'era tra i farisei un uomo chiamato Nicodemo, un capo dei Giudei. Egli andò da Gesù, di notte, e gli disse: «Rabbì, sappiamo che sei un maestro venuto da Dio; nessuno, infatti, può fare i segni che tu fai, se Dio non è con lui». (Gesù era un personaggio controverso ed era, quindi, potenzialmente compromettente per Nicodemo, membro del sinedrio, incontrarlo di giorno, rischiando di essere identificato come suo seguace. Nicodemo però aveva visto i miracoli di Gesù e la sua curiosità lo spingeva a questo incontro notturno) Gli rispose Gesù: «In verità, in verità ti dico, se uno non rinasce dall'alto, non può vedere il regno di Dio». (Gesù vede che Nicodemo è attratto dai miracoli e gli spiega che per quanto sorprendenti questi siano, non sono affatto la cosa più importante. C'è una realtà assai più determinate, il regno di Dio, ma nessuno lo può vedere se prima non è nato di nuovo) Gli disse Nicodemo: «Come può un uomo nascere quando è vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?» (Non comprendendo ciò di cui Gesù sta parlando, Nicodemo, col proprio intendimento razionale, fa la domanda più ovvia) Gli rispose Gesù: «In verità, in verità ti dico, se uno non nasce da acqua (il bambino cresce in una sacca d'acqua per nove mesi e poi esce con acqua) e da Spirito, non può entrare nel regno di Dio. Quel che è nato dalla carne è carne (da acqua) e quel che è nato dallo Spirito è Spirito (dalla pentecoste in poi). Non ti meravigliare se t'ho detto: dovete rinascere dall'alto. Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va: così è di chiunque è nato dallo Spirito». (Insomma, i miracoli per Gesù non sono il massimo, ma lo è il Regno di Dio e l'entrarvi a farne parte tramite una rinascita spirituale. Questa è la ragione per cui Dio si è incarnato. E' però qualcosa di là dalla comprensione umana, qualcosa di indefinibile, come il vento che si vede solo indirettamente nei suoi effetti. In ebraico, greco e latino la parola “spirito” deriva o è, infatti, la stessa usata per vento, aria e respiro. Il vento è l'analogia che Gesù usa e anche nel giorno della pentecoste, lo Spirito Santo è accompagnato da un gran vento, forse per ricordare i presenti delle sue parole e far loro sapere che la nuova vita è iniziata. Questa vita è la realtà del Cristianesimo ed è come il vento. Come tale non può essere contenuta dottrinalmente, né legalisticamente, né può essere razionalmente definita, né tantomeno circoscritta in una singola teologia, per quanto sofisticata essa sia, né può essere racchiusa in una tradizione, per quanto “apostolica” si affermi essa sia.) Replicò Nicodemo: «Come può accadere questo?». Gli rispose Gesù: «Tu sei maestro in Israele e non sai queste cose? (I maestri di Israele erano pressoché teologi e profondi conoscitori delle scritture. Qui sembra che Gesù stia quasi ironizzando e alludendo alla futilità dell'eccessiva fiducia nella conoscenza delle scritture, quando manca la rinascita spirituale) In verità, in verità ti dico, noi parliamo di quel che sappiamo e testimoniamo quel che abbiamo veduto; ma voi non accogliete la nostra testimonianza. Se vi ho parlato di cose della terra e non credete, come crederete se vi parlerò di cose del cielo? Eppure nessuno è mai salito al cielo, fuorché il Figlio dell'uomo che è disceso dal cielo. E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell'uomo, perché chiunque crede (enfasi mia) in lui abbia la vita eterna.» (La nuova vita di cui Gesù parla era in lui stesso e si sarebbe attuata con la sua crocefissione. È per chiunque creda in lui, ma il credere di cui si parla qui non è l'assenso mentale a un'idea, a un insegnamento o a una dottrina. Si tratta invece dell'accogliere la persona di Gesù in sé. Gesù non disse “io vi do la vita, la resurrezione, la verità e la salvezza” ma disse “Io sono la vita, la resurrezione e tutte queste cose”. Ritornerò su questo perché qui sta la grande semplicità del cristianesimo, che in essenza non è una religione come comunemente inteso, ma è Gesù stesso.)


PIÙ STORIA E TEOLOGIA

Ritornando alla storia impariamo che per via delle cosiddette eresie ci fu la necessità di definire per tutti quale fosse la natura di Dio. Il risultato fu il cosiddetto Credo (o Simbolo niceno-costantinopolitano) con le sue integrazioni successive. Fu la conclusione di anni di discussioni teologiche per definire quale fosse la natura di Dio e la prassi corretta per esprimere la fede cristiana. Il credo, così come si è abituati a recitarlo, sembra abbastanza semplice, ma è la sintesi di volumi e volumi di proposizioni teologiche. Non è, come si pensa, qualcosa tramandatoci dagli apostoli, ma fu il risultato di interminabili diatribe, proposte e controproposte per arrivare, in quel quarto secolo a un'unica e approvata teologia. Non fu neanche qualcosa in cui tutti si trovarono d'accordo, nemmeno la maggioranza dei cristiani, ma fu in gran parte una forzatura da parte di chi, in qualche modo, poté prendere il sopravvento.

Mi sono più volte chiesto come quei teologi, il cui pensiero diventò dogma della fede nell'impero appena convertito, fossero così più profondamente intelligenti degli altri da potere capire e articolare con tale categoricità e finalità la natura di Dio, la relazione fra le tre persone della trinità, l'interazione fra le due nature di Cristo, quella divina e quella umana, la dinamica soteriologica, l'esegesi e l'ermeneutica biblica; tutte cose su cui si discute ancora oggi e che non hanno un fondamento specifico e inconfutabile nel testo biblico.

Fatto sta che non si raggiunse mai l'unanimità in questo e i disaccordi, come quello sulla natura di Dio, furono la causa di varie scissioni. Le prime a separarsi dall'ortodossia imperiale furono le cosiddette chiese orientali antiche, poi anche la chiesa di Roma prese la propria strada. Il Cesaropapismo che s’instaurò dalla conversione di Costantino in poi aveva adottato Costantinopoli, nuova capitale dell'impero, come sede del suo potere politico e religioso. Cionondimeno esisteva l'idea di una leadership collegiale della chiesa, la cosiddetta pentarchia delle cinque sedi patriarcali di Gerusalemme, Antiochia, Alessandria, Roma e Costantinopoli. Nel sistema Cesaropapista, però, l'imperatore assumeva spesso un ruolo di primato in cui si eguagliava a un apostolo.

Con la decisione di costruire Costantinopoli, si volle creare anche una capitale cristiana in cui non fossero più esistite le antiche radici pagane di Roma. Col declino di Roma come capitale dell'impero e di Gerusalemme come sede centrale del cristianesimo, Costantinopoli fu conseguentemente designata a ruolo di nuova Roma e nuova Gerusalemme. Mentre in teoria si manteneva il sistema collegiale della pentarchia, in pratica Costantinopoli, rivendicava un certo primato nei confronti degli altri patriarcati.

Nei confronti di Roma, come capitale antica e prima sede amministrativa dell'impero, avendo svolto un ruolo cruciale nello sviluppo della cristianità, era riconosciuto invece un titolo onorifico di “prima fra uguali”; un onore che le negava, però, qualsiasi autorità di là dalla propria giurisdizione. Per varie ragioni, nei secoli a venire, Roma si oppose e rivendicò sempre più incessantemente un primato suo in virtù del fatto che gli apostoli Pietro e Paolo fossero stati presenti e strumentali nella fondazione della cristianità romana. Più tardi nacque anche l'idea del cosiddetto primato di Pietro, sennonché dell'infallibilità dei vescovi romani.

La tensione interna fra Roma e Costantinopoli raggiunse il suo culmine con il cosiddetto “grande scisma” del 1054 in cui ci furono scomuniche reciproche e ognuna delle due chiese brandì l'altra come eretica. Le differenze teologiche, alcune a che fare con aspetti trinitari e già in corso da vari secoli, diventarono ancora più ampie e insormontabili nei secoli a venire. Tuttora, nonostante il ritiro delle rispettive scomuniche, avvenuta al termine del concilio Vaticano II, abbiamo questa divisione del cristianesimo latino (cattolici e protestanti) con una sua comprensione della natura di Dio trinitario, e l'ortodossia greco - russa con una assomigliante ma diversa. Le chiese ortodosse d'oriente, quelle che si erano già separate nei primi secoli, ne conservano un'altra ancora e più antica, mentre le più recenti chiese unitarie rigettano del tutto il concetto di Dio trino.


I LIMITI DELLA TEOLOGIA

Per quanto possano intimorire le complesse argomentazioni della teologia trinitaria, delle due nature di Cristo, dell'interagire e dell’unicità o meno d'essenza fra Padre e Figlio, il timore reverenziale per la teologia sparisce quando si mettono a confronto idee e teologi diversi. I teologi, infatti, sono i più qualificati per la critica di colleghi e lo fanno incessantemente. Loro, più di chiunque altro, possono palesare le incongruenze, gli errori di logica e di interpretazione. Leggendo l'uno e poi l'altro si può facilmente individuare quel tallone d'Achille che ogni mente umana presenta, inclusa quella del teologo più illuminato.

Se prendiamo, ad esempio, Agostino d’Ippona, il teologo più noto nella cristianità Latina, sia cattolica sia protestante, non è difficile, oltre ai pregi, cogliere anche aspetti umani e quindi i suoi limiti. Ora, col vantaggio di un trascorso storico è facile individuare anche il danno che certe sue idee hanno causato. Certo, c'è tanto da imparare da Agostino, ma ci sono anche tante cose che ci trasciniamo appresso dalla teologia di quel periodo che sarebbe meglio dimenticare; cose che fornirono la giustificazione morale per le conversioni forzate, per l'inquisizione e la persecuzione di altri cristiani, per l'utilizzo della forza, per affermare l'ineguaglianza dei sessi o la concezione e l'ossessione distorta del peccato originale con la conseguente demonizzazione della sessualità, per determinare la fobia della dannazione eterna ecc.

Insomma, se la teologia, con la sua dialettica filosofica, la logica, l'esegesi ed ermeneutica fossero state sufficienti per produrre un'unica interpretazione e armonia del testo biblico, 2000 anni di storia sarebbero abbondantemente bastati. Al contrario, molti teologi moderni, col vantaggio di una migliore comprensione della storia, nuovo materiale rinvenuto e ora a loro disposizione, inclusi i testi rinvenuti negli ultimi secoli, stanno attuando una sorta di revisionismo teologico in cui le antiche posizioni sono rivalutate e a volte anche ribaltate. Insomma, invece di essere più vicini al consenso generale, ne siamo più lontani che mai.

A un certo punto si arriva a chiedersi quale sia la necessità e l’importanza di giungere a una comprensione razionale e unica della natura di Dio. Se le cose che i teologi insistono nel volere capire e spiegare sono quello che Dio vuole far capire o se non preferisca, invece, lasciarle avvolte nel mistero della fede o la diversità di vedute, l'elasticità e l'inclusione di più idee e interpretazioni, piuttosto dell'ambita uniformità dell'ortodossia. Ci si chiede anche se la complessità della teologia, il volerla rendere una scienza intellettiva e l'insistere nella creazione di rigide confessioni di fede legate a dogmi assoluti, non sia, in fondo, un elaborato occultamento di una profonda crisi di fede, imponendone una artificiale – se non si cerchi di compensare con contenuti intellettivi della teologia dogmatica la mancanza di quelli interiori.

D'altro lato sarebbe sbagliato criticare ogni forma di dogmatismo e dare l'impressione di favorire, invece, una sorta di relativismo apatico nei confronti della fede. Nel caso del teologo che ha fatto esperienza di Dio e usa la sua ragione e abilità linguistica per comunicare ad altri quello che ha imparato, è comprensibile che lo faccia con un certo entusiasmo e appaia quindi dogmatico. Questo tipo di dogmatismo è però giustificabile perché non è frutto di un semplice sforzo intellettivo, ma proviene da un'esperienza diretta col soggetto in discussione, cioè Dio. In ogni modo, come disse il saggio in Ecclesiaste 5:2, “…Dio è in cielo e tu sei sulla terra; le tue parole siano dunque poche”. Quando parliamo di Dio, dunque, anche se entusiasticamente per via di un'esperienza avuta, di qualcosa che ci ha toccati e illuminati profondamente, dobbiamo pur sempre ricordarci della nostra fragilità umana e della nostra perenne parzialità d'intendimento.

A dimostrazione di questa imperfezione intellettiva e dei limiti della ragione, sta che innumerevoli trattati di teologia, opere dei più autorevoli teologi che a loro tempo furono considerate il massimo dell'intendimento razionale su Dio, a volte furono superate dal lavoro di successivi teologi. Questi, studiando e costruendo sulla precedente comprensione di Dio, vi scoprirono incongruenze e ragionamenti fallaci, e composero poi una nuova teologia, più razionale e apparentemente migliore, ma tale solo fino a quando anch'essa fu messa alla prova e cominciò a mostrare i segni del tempo arrivando a una nuova e forse più approfondita comprensione di Dio.

Questa è la storia della teologia che non fa altro che confermare quello che in parole semplici Paolo disse 2000 anni fa: “L'amore non verrà mai meno. Le profezie verranno abolite; le lingue cesseranno; e la conoscenza verrà abolita; poiché noi conosciamo in parte, e in parte profetizziamo; ma quando la perfezione sarà venuta, quello che è solo in parte, sarà abolito. Quando ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino; ma quando sono diventato uomo, ho smesso le cose da bambino. Poiché ora vediamo come in uno specchio, in modo oscuro; ma allora vedremo faccia a faccia; ora conosco in parte; ma allora conoscerò pienamente, come anche sono stato perfettamente conosciuto. Ora dunque queste tre cose durano: fede, speranza, amore; ma la più grande di esse è l'amore.” (1 Cor. 13: da 8 a 13)

Bisogna considerare anche che, nella maggior parte dei casi, i teologi hanno una posizione all'interno di un determinato ramo della cristianità. Spesso hanno una cattedra in qualche prestigioso istituto di formazione teologica, uno stipendio e una carriera all'interno di un'istituzione religiosa. Come tali non sono mai completamente liberi di varcare la soglia della teologia ufficiale dell'istituzione che li sponsorizza. Esistono perciò dei limiti, a volte anche solo economici, nella loro libertà di pensare, esplorare o esprimere idee alternative. Di solito possono solo muovesi entro l’ambito di una teologia già prestabilita e per questo la maggior parte del loro lavoro è in gran parte apologetico, cioè a difesa e sostegno del loro particolare schieramento religioso.

E' un po' come lo scandalo avvenuto pochi anni fa sulle intercettazioni delle mail fra scienziati che lavoravano all'interno di certi istituti designati e finanziati per lo studio del riscaldamento globale. Che il fenomeno del riscaldamento esista o no non è il punto, ma lo è la dinamica svelata da quelle mail, in cui si parlava di dati falsificati per soddisfare le esigenze politiche di chi finanziava gli istituti. Si tratta della stessa dinamica che ha sempre influenzato anche i teologi che, come quegli scienziati, non sono liberi da pressioni economiche e dai rischi per la loro carriera.

Questo induce diffidenza nella teologia di un unico schieramento religioso in quanto è spesso interessata e indebitamente apologetica, non a favore di Dio, il che sarebbe ammirevole, ma per l'istituzione stessa. Per questo penso di avere imparato di più, confrontando posizioni contrastanti, o da quei teologi che per qualche ragione hanno perso il loro ruolo e prestigio all'interno di una particolare chiesa, spesso per avere osato pensare e parlare al di fuori degli schemi prestabiliti. Mi chiedo, infatti, cosa pensassero veramente gli eretici. Si è fatto così tanto per cancellarne le tracce e gli scritti che oggi conosciamo soltanto le posizioni dei loro accusatori, di quanti li hanno combattuti, e abbiamo soltanto tracce delle loro versioni nei verbali dei processi che li condannarono; mi chiedo chi fosse veramente ortodosso e chi eretico. Solo Dio lo sa!

Avendo chiarito questo, bisogna però riconoscere, nei suoi limiti, l'utilità della teologia e dello studio delle cose che riguardano Dio. La Bibbia stessa, che non è un trattato in teologia sistematica, presenta in ogni modo tanta teologia, con vari punti di vista, a volte contrastanti. L'apostolo Paolo descrisse il cammino del cristiano come quello di una persona che cresce nel tempo e impara sempre di più, man mano mettendo da parte le comprensioni infantili per sostituirle con quelle da adulto. In questo senso il teologo può essere come un buon pastore che cammina dove stiamo andando e ci aiuta a fare il passo successivo nel nostro approfondimento delle cose di Dio. Non intendo quindi sminuire il ruolo della buona teologia, ma solo spiegare che anche i teologi camminano lo stesso sentiero di ogni cristiano e anche loro, come bambini crescono e imparano.


PRECONCETTI E CONDIZIONAMENTI

Analogamente alle varie posizioni teologiche, anche il mio corso, “La Religione Semplice”, sta invecchiando e ci vedo già alcune cose che allora davo per scontate ma che ora riconosco come parte di una particolare angolatura che mi condizionava. Se potessi, se ne avessi il tempo ne riscriverei alcune parti, ma penso sia meglio aggiungere, aggiornare e lasciare così la traccia di una normale maturazione che in ogni modo avviene in chiunque abbia deciso di seguire Cristo. E' normale non avere mai tutte le risposte, maturarne alcune o chiarirne altre e ritengo, comunque, che il corso rimanga valido perché, come dissi allora, non intendeva affatto sostituirsi alla lettura della Bibbia ma solo essergli d'introduzione e facilitarne lo studio, come credo sia ancora opportuno. Ora, però, vorrei aggiungere qualcosa che ritengo determinante, che so di non avere sufficientemente chiarito prima, perché neanche per me non era così chiaro, come lo sta invece diventando ora. Per questo ho intitolato questo articolo “LA RELIGIONE ANCORA PIÙ SEMPLICE”.

Mi appresso, quindi, al punto cui miravo e che ha principalmente a che fare con la questione soteriologica della salvezza dell'anima e tocca anche le questioni della natura di Dio, della Trinità, del battesimo, dei sacramenti e dell'inferno. Quello che dirò renderà tutto veramente più semplice, ma avverto che potrebbe offendere qualcuno.

Come ho accennato all'inizio, le varie teologie cristiane offrono varie modalità per ottenere quello che molti credono sia lo scopo principale della religione cristiana, cioè la salvezza dell'anima. La discussione è sempre stata molto accesa su quale sia la prassi corretta per ottenere questo traguardo. Alla radice di quel dibattito stava il timore di un’orribile alternativa alla salvezza, cioè il fuoco eterno. Da questo timore provenivano le motivazioni per cui sia cattolici sia protestanti destinarono molti dei loro dissidenti “eretici” all'esecuzione capitale. Nel loro concetto teologico di salvezza, l'eretico, con la sua opinione teologica diversa, poteva, infatti, distogliere i fedeli dalla prassi “corretta” per ottenere la salvezza e quindi far sì che la loro anima fosse dannata in eterno. Quest'ordine d’idee, vivamente promulgato da noti teologi, portava all'inevitabile conclusione che l'eresia fosse un crimine peggiore dell'omicidio, perché l'omicida uccideva solo il corpo, ma l'eretico uccideva l'anima, e questo per l'eternità. Per questa ragione non c'era altra opzione per le autorità civili e religiose, se non quella di reprimere brutalmente qualsiasi scostamento dall'ortodossia ufficiale, unica via per la salvezza.

Come si era arrivati a questo? Come si era creata una tale distorsione e orrenda caricatura dell'esempio, delle parole e del carattere di Gesù? Tutto era iniziato in quei secoli in cui si volle eliminare il dissenso per stabilire un'unica ortodossia in un impero che insisteva su di un ordinamento uniforme, anche per la religione. Tutto cominciò dall'idea che la cristianità potesse instaurare il regno di Dio in terra con la spada, la politica e gli strumenti di questo mondo, tra questi la teologia, cui fu dato il compito di giudicare fra ortodossia ed eresia. I tenui e instabili criteri che i teologi fornirono diventarono così anche il fattore decisivo per decidere chi dovesse andare in paradiso e chi all'inferno.

Tuttora, in quasi ogni ramo della cristianità, sussiste quello stesso metodo di valutazione. Ognuno rivendica la propria ortodossia e denuncia l'eterodossia o l'eresia degli altri. Le necessità storiche di preservare la propria forma di cristianità, di prevenire una fuga di fedeli verso la cristianità concorrente, hanno sempre fatto sì chi i teologi di una particolare cristianità, ortodossa, cattolica o riformata che fosse, producessero un ampio volume di teologie apologetiche. Questo tipo di teologie, oltre che a rivendicare un ruolo fondamentale delle idee, delle tradizioni o della ritualità di una particolare istituzione, definendola immancabilmente come l'”unica e vera chiesa”, dichiaravano, inoltre, l’adesione all'istituzione strumento indispensabile per la salvezza, e che senza di essa, senza la partecipazione ai suoi sacramenti, ai suoi riti ecc., vi fosse l'inferno. Questo tipo d'insegnamento era estremamente efficace per incutere nei fedeli il timore di allontanarsi dalla loro chiesa e migrare verso altre confessioni. Tutto questo era imperniato principalmente nella paura di un inferno eterno, una paura spesso consapevolmente utilizzata a danno di milioni di persone semplici e a favore di potenti istituzioni ecclesiastiche. Così facendo si rendeva la salvezza un oggetto, un prodotto elargito da una particolare istituzione cristiana che si era auto-abilitata a rilasciare un, anzi, “il” “passaporto” valido per l’aldilà.

Per quanto riguarda i criteri biblici della cosiddetta salvezza dell'anima, cito di nuovo il dottor Ken Vincent, che afferma ci siano ben 139 versetti nel Nuovo Testamento a sostegno di una salvezza gratuita, per grazia. Poi anche 551 versetti che indicano la salvezza tramite le buone opere e 178 versetti che indicano una salvezza universale, cioè che tutti saranno eventualmente salvati. Cita poi anche 31 versetti che indicano che l'inferno non è permanente e fa notare una quarta posizione teologica, la dottrina della predestinazione, che dispone di 77 versetti a suo favore. Ora si può essere in disaccordo sul numero esatto di riferimenti biblici, ma non si può negare che queste siano posizioni teologiche ampiamente sostenute, sia dalle scritture sia da un buon numero di teologi e confessioni.

Da questa vastità di dati e di opinioni, vediamo quanto sia pressoché impossibile arrivare a una conclusione comune. Se cerchiamo l'uniformità e una conferma indiscutibile di una qualsiasi interpretazione teologica non la troveremo mai. Ovviamente la risposta è altrove, in qualcosa che sfugge a gran parte della teologia dogmatica, analitica e razionale. Qualcosa che ovviamente non può essere dimostrato tramite l'esegesi e l’ermeneutica del testo biblico, ma che va oltre e oserei dire è assai più semplice, così semplice che bisogna essere bambini per capirlo.

Per anni ho creduto anch'io che ci fosse una transazione, un gesto particolare, un biglietto magico per accedere alla salvezza. Ora credo che non ci sia una formula, che non ci siano parole magiche da ripetere, battesimi, riti, articoli di fede da imparare, concetti teologici da capire, opere buone da compiere, o altro, per ottenere la vita eterna. Allo stesso modo non credo che l'essere cristiani consista nell'applicare principi di un’etica, regole, morali, e serie di prescrizioni che definiscono il cosiddetto cristianesimo. Insomma, non credo che esistano dei “prodotti” cristiani separati da Cristo. Tutte queste cose, come la salvezza, la morale, l'etica, le buone opere, non sono altro che Cristo stesso e manifestazioni del suo carattere in noi, dimostrazioni dell'attività del Suo Spirito in noi perché Gesù è la salvezza, la porta, la via, la vita, la verità, l'etica, la morale, la condotta, la giustizia e l'amore.

E' l'esperienza di Cristo che racchiudere in se tutto quello che Gesù è. Non siamo noi che tramite la religione, l'etica, la buona morale e la disciplina produciamo il cosiddetto Cristianesimo e le sue virtù separatamente da Cristo. E' solo aprendoci a Lui, con la cosiddetta fede, che non è una decisione intellettiva, teologica, ma il vuoto che creiamo di fronte a Lui e in cui Lui entra, è questo e solo questo che porta in noi la vita di Cristo. E' Cristo che come l'acqua corre verso il vuoto, verso il punto più basso: nei cuori di chi si apre a Lui, negli umili, negli spezzati, nei peccatori; in tutti quelli che sanno di avere fallito, di non avere una propria morale, di non avere un proprio amore, di non avere una propria giustizia, di avere fatto tanti sbagli; di tutti quelli, insomma, che si arrendono dalla pretesa dell'io ed è in quella resa a Lui che accade il miracolo, la nuova vita in Lui. Avviene quello che Paolo descrisse: “non sono più io che vivo ma è cristo che vive in me”. Nella misura in cui l'io si arrende a Lui, Lui nasce e cresce in noi ed è Lui in noi a essere nostra salvezza, amore, vita e ogni cosa che definiamo comunemente cristiana.

Non c'è una salvezza a parte questo. Gesù dice “Io sono la resurrezione e la vita”, non “io vi do la resurrezione e la vita”, dunque, “IO SONO” in quanto non sono doni, cose, che lui dà separatamente da se stesso.

Alle varie confessioni, invece, piace oggettivare gli elementi cristiani e interporsi come mediatrici fra noi e Cristo, come fossero dei “babbi natale” che potessero distribuire i Suoi doni ricevendo così un po’ del Suo onore e assicurando al loro interno professioni e carriere ecclesiastiche. La “religione cristiana”, però, non esiste, ma è solo un'idea umana, una brutta imitazione che confonde e trae in inganno. Quel che esiste è solo Cristo e Cristo in noi, la sua vita in noi, l'azione del Suo Spirito in noi. Questo è tutto! Un unico “pacchetto” con ogni cosa che la religione pretende gestire come oggetti di commercio. Quell'esperienza di Gesù in noi è qualcosa che Dio dà liberamente e ognuno può averla liberamente nel momento in cui si spoglia di sé e si volge lo sguardo a Lui. Questo è il vangelo, la buona notizia che Gesù voleva far sapere a tutti: che la porta non è più chiusa! Anzi, Lui e uscito per incontrarci e ora sta bussando alla nostra porta. Noi non dobbiamo neanche più andare da Lui, è Lui che è venuto da noi e ci aspetta pazientemente, aspetta quel momento in cui sentiamo il suo bussare, deponiamo le nostre paure e gli apriamo la porta, che avvenga presto o tardi, Lui è lì che ci aspetta, sempre.

Che cosa vuole dire tutto questo? Che chiunque ha Cristo in sé ha tutto quello che Cristo è. Ha vita, verità, salvezza, resurrezione, amore, etica, giustizia, morale ecc. Il cristianesimo è Gesù e basta, e Gesù bussa per entrare nella vita di tutti.


LA MORALE E L’ETICA DEL CRISTIANESIMO

Per spiegare meglio quello che intendo userò un esempio. Mi sono trovato più volte in incontri fra cristiani dove si additavano gli aspetti non cristiani del mondo: la perdita di fede, la paganità di certe celebrazioni, la poca moralità, la “non cristianità” di altre chiese, gruppi di persone, sette, ecc. Ho sentito più criticismo fra cristiani, specialmente sul resto dell'umanità, che da qualsiasi altro gruppo di persone. Perché? Si tratta di una conseguenza di quel separare da Cristo quelli che si ritengono attributi cristiani. E' l'effetto del creare una copia dei contenuti cristiani dagli indizi che abbiamo sulla sua natura, il che sfocia in falsità, ipocrisia, atteggiamenti presuntuosi, religiosità e nell'emulare le caratteristiche del cristianesimo con forza umana, ma senza Cristo.

Più volte, in questo tipo d'incontri, si dimostrava tanto zelo religioso, si parlava tanto di religione, eppure nel punto focale dei più mancava Cristo. Al centro di tutto stava invece la religione stessa, la sua morale, i dogmi, le regole, i comandamenti, l'etica e gli ideali, ma Cristo, se considerato, lo era solo marginalmente. Partecipe anch'io di questo stato di cose, ho acquisito gradualmente la consapevolezza di un’intrinseca religiosità legata alla natura umana, ma separata da Cristo, che oggettualizza quegli elementi presumibilmente cristiani. Gradualmente e con l'aiuto di chi ne aveva fatto esperienza prima di me, ho scoperto che si è esenti da quell'oggettivazione e imitazione umana solo nei momenti in cui si lascia Gesù vivere in noi, manifestarsi in noi tramite l'attività del Suo Spirito in noi.

Per il cristiano la risposta è rendersi conto di questa intrinseca contraddittorietà umana e riconoscere, invece, la dinamica che ci libera dalla pretesa, dal cercare di produrre il cristianesimo tramite la religiosità, con le proprie forze; cosa che, inevitabilmente, ci fa cadere nella trappola della superbia spirituale, dove si finisce col pensare: “Guarda come sono bravo, buono, spirituale, pieno di fede, di carisma, quanto sacrifico per Dio ecc.” In effetti, in questo stato di cose, siamo noi a “fabbricare” i “prodotti” del cristianesimo per essere salvati, siano essi la fede o la virtù, il moralismo, l'onestà o altro che dimostriamo; siamo sempre noi. Paolo invece disse: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2: 20).

Ora attenzione: non sto minimizzando l'etica e la morale cristiana, anche in coloro che la producono con la propria forza e per motivi religiosi. E' bene evitare certi vizi, seguire la morale, l'etica e gli ideali Cristiani e non si può che ammirare chi ne fa una scelta di vita, ma, in certo qual modo, è ingannevole pensare che questi aspetti costituiscano di per sé l'esperienza cristiana, che è Cristo in persona.

Per di più, la virtù etico-ideale della religione, e con questo intendo la virtù che deriva da un corpus di regole e atteggiamenti esteriori a scapito della mancanza di realtà interiori, non solo isola la persona dal fare esperienza concreta di Dio, ma tende immancabilmente a glorificare l'individuo che vi s'impegna. L'individuo tende così a insuperbirsi tramite la religione. Anche se è un vanto di pretesa umiltà, in cui magari si atteggia, ciò lo porta a confrontarsi criticamente con gli altri, nei quali vede incessantemente peccati, poca fede, immoralità e così via. Insomma, la cosiddetta virtù che viene dall'io tende a porci su un piedistallo dal quale giudichiamo tutti e chiunque non segua i nostri stessi criteri morali.

Quest’oggettivazione della virtù e dei “prodotti” della religione, porta poi a elevare un modello di presunta bontà e santità come traguardo di vita. Ovviamente, nessuno riesce mai a conformarsi al modello e così il modello stesso crea un senso costante d’insoddisfazione interiore. Di fronte a questo ci si consola sempre con il confronto critico con chi crediamo sia peggio di noi, giudicando sempre con gli stessi criteri artificiosi. Insomma ci si conforta dicendo: “Beh! Almeno io non bevo, non fumo, non bestemmio, non rubo, non sono immorale, non tradisco ecc.”. Si finisce col dire questo sperando che il fatto che non siamo come gli altri ci dia qualche credito con Dio colmandone, almeno in parte, il debito. Fatto sta che non c'è niente di cristiano in tutto questo, se non qualche vago riferimento a certi principi comunemente ritenuti cristiani, ma comuni anche in ogni altra religione e fra atei.

Gesù non è un concetto o una definizione teologica... Gesù non si può capire, solo conoscere. Non fa nessuna differenza quale concetto teologico pensiamo sia giusto. La nostra idea non cambia la sua natura. E' solo un’elaborazione a livello intellettuale, filosofico e dottrinale che sfocia in credenze diverse. E' solo nelle tensioni fra confessioni, nella ricerca della stabilità religiosa che s’invoca lo spauracchio dell'eresia di chi la pensa diversamente, ma la persona che conosce Gesù non si pone nemmeno la domanda. Non le interessa se Dio è tre, due, uno - se Gesù è uguale, subordinato o separato perché sa semplicemente che Gesù funziona e vive in lui. Questa è la semplicità più semplice che ci sia e per cui Gesù disse che se un uomo non si converte e non diventa bambino non può entrare nel regno di Dio. E come accendere l'interruttore e si accende la luce. Non serve cercare di capire la dinamica degli atomi nell'elettricità per usufruirne.


LA FEDE

Ora una chiarificazione sulla fede. Oltre all'etica e alla morale, che vengono spesso confuse come essenza del cristianesimo, c'è un altro suo strano aspetto che viene erroneamente considerato centrale. Si tratta dell'idea che il cristianesimo consista nella condizione mentale di aderire a una particolare dottrina teologicamente definita. Si pensa che sia fede “nella giusta dottrina” a determinarne l'inclusione o meno del credente nella vera Chiesa, regno di Dio e futura redenzione. In questo modo non è il conoscere Cristo che diventa l'oggetto centrale, ma la dottrina stessa. Il “credo” e la sua formulazione razionale e analitica diventano criterio essenziale di ortodossia, di fede corretta. Il cristiano che devia da questa teologia ufficiale, che ovviamente varia secondo le istituzioni che la ufficializzano, è eretico, parte di una fede aberrante, di una setta, seguace del diavolo e automaticamente escluso dalla salvezza e dall’appartenenza alla particolare istituzione.

Tutto si riduce al tipo di approccio teologico che si adotta, Cattolico, Ortodosso, Luterano, ecc., come se la salvezza dell'anima umana dipendesse proprio dalle idee che uno riceve dal catechismo di ognuna. Ancora oggi gli schieramenti religiosi della cristianità si escludono l'un l'altro con accuse di eterodossia, eresia, paganesimo, idolatria, se non, addirittura, di satanismo. Poco conta che quelle differenze teologiche che li distinguono oggi, originarono vari secoli dopo Cristo e che secondo la loro attuale teologia, o perfino quelle dei Padri della Chiesa del quarto secolo, tutti i primi cristiani, apostoli inclusi, sarebbero automaticamente considerati eretici. Nessuno dei primi cristiani avrebbe, infatti, mai prestato fede alle molteplici “verità” disegnate dai vari concili ecumenici. Nessuno di loro aveva mai pensato alla complessità del concetto di trinità, delle nature separate di Cristo, al ruolo di Maria e altre cose che subentrarono dopo e furono rese criterio di distinzione fra ortodossia ed eresia. Insomma la loro cristianità, con i suoi vari problemi, non aveva niente a che fare con la teologia dei secoli successivi, che non può semplicemente invalidarla in base a concetti più “avanzati”. Furono loro i primi e, sebbene con tante lacune teologiche, furono indubbiamente strumenti di Dio. Essenzialmente fu il fenomeno della vita di Cristo in loro, nelle persone che si aprivano a Lui, che fece da propulsore al cristianesimo primitivo prima che subentrassero le dottrine, prima della teologia, prima delle varie chiese, prima delle eresie e prima di tutto quello che noi oggi pensiamo sia il cristianesimo. La fede, quindi, non è un'idea, non è teologia, ma è l'aprirsi a Cristo, indipendentemente da qualsiasi altra cosa.

Abbiamo così visto come Cristo può diventare marginale, mentre un'idea e la sua comprensione razionale diventano il centro della religione e passaporto per la salvezza. Ma Cristo non s'incarnò per darci un'ideale, che avrebbe potuto darci altrimenti, né per darci un'etica, delle regole o un modello di comportamento, ma per darci se stesso. Gesù non disse niente di nuovo per quanto riguarda l'etica e la morale, dove enfatizzò per lo più cose già conosciute e le antiche scritture.

Quel che Gesù disse di nuovo era “Io sono la vita, la resurrezione, la porta, il pane, l'acqua, la via, la verità, ecc”. Non disse “Io vi do queste cose”, ma “IO SONO questo” e aggiunse che senza di Lui non possiamo fare niente. Il cristianesimo quindi è Cristo, è Lui in noi, la Sua vita nella nostra, il Suo spirito in noi, è il Natale incarnato in noi; Il resto è mera religione, cristianità e non Cristianesimo.

C'è un solo principio, una sola teologia, una sola salvezza, una sola verità... Gesù in noi. Una porta dove si entra, il pane che si mangia, l'acqua che si beve, l'eternità che si vive. Quando? Ora e sempre con Gesù in noi. Tutto qui, tutto Lui e nient'altro... il resto è religione, è il prodotto della capacità, dell’emotività e dell'intelletto umano; un'immagine e non la realtà. L'unica realtà è LUI. Questa è la semplicità del vangelo.

Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può far frutto da se stesso se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. (Gio 15: 4 e 5)