Conclusi la quinta parte di “La Religione Semplice” con queste parole: La Bibbia, incluso l’Antico Testamento, è la più affascinate storia d’amore che esista. Un Dio d’amore crea altri da amare e con cui condividersi. Li pone in una dimensione temporanea, dove sa che si allontaneranno, ma che ultimamente torneranno a lui. Rimane nascosto, senza interferire nelle loro scelte e li guarda crescere. Li guarda fare scelte giuste e sbagliate, e sa che inevitabilmente questo li preparerà per il loro destino finale con Lui. In questo modo e in questa dimensione, gli uomini partecipano alla loro stessa creazione, decidendo la loro natura eterna con le loro scelte. Si autodeterminano, fino a che, come liberi esseri cercheranno Lui. E lui era sempre lì che li aspettava, corteggiava e preparava per un’eternità insieme, che va di là da ogni immaginazione. E’ la più grande avventura che esista e non c’è romanzo o saga che vi ci possa comparare, e il finale è estremamente lieto.
Qualcuno dirà, “ma non per chi va all’inferno”, ma c’è una risposta anche per questi e la serbiamo per uno studio futuro.
Eccoci quindi all'argomento lasciato allora in disparte, la questione dell'inferno. Un'idea infernale che molti preferiscono ignorare; sanno che fa parte della loro religione, ma non ci pensano e non ne parlano. Altri, invece, vivono nel timore continuo di cadervi, o che qualcuno a loro vicino possa subirne le pene. Per altri ancora l'inferno è il posto dove andranno gli altri, quelli che non la pensano come loro. Quindi, una questione spinosa, che causa ansie, pregiudizi e non pochi fraintendimenti. Approfondiamola un po’.
Origine dell'idea
Nella cultura italiana, l'immagine dell'inferno risente l'influenza della Divina Commedia, ma l'idea ha radici molto più antiche. La visione dantesca era, infatti, influenzata dalle mitologie e filosofie greco-romane, e l'idea dell'inferno era perfino antecedente a queste. Ovviamente c'è chi suppone che derivi, invece, dalla Bibbia, il che sembrerebbe corretto, ma anche lì la parola inferno viene usata sempre di meno nelle nuove traduzioni. La versione Douay Rheims del 1899 utilizzava la parola “inferi” e “inferno” ben 114 volte, la CEI del 1974, 86 volte, la CEI del 2008 riduce a 72 e altre versioni moderne scendono al di sotto di 30 volte. Nella Holman Christian Standard Bible, che vanta di avvalersi degli studi storico linguistici più recenti e un vasto team di esperti, la parola inferno appare solo 10 volte. Sembrerebbe quasi che la parola “inferno” sia destinata a sparire, perché? Qualcuno potrebbe sospettare un compromesso, una sorta di annacquamento per rendere la Bibbia più abbordabile alle persone moderne, che non amano sentirsi parlare d'inferno. Secondo gli esperti si tratta, invece, di traduzioni più corrette, dovute al fatto che ora si conoscono meglio le lingue originali per via di ritrovamenti archeologici e documenti antichi che sono affiorati negli ultimi decenni. C'è da dire che anche prima di queste traduzioni più recenti, nelle cosiddette traduzioni letterali della Bibbia, come la Young's Literal Translation, non esisteva la parola inferno, perché nei testi originali non c'è un vocabolo corrispondente. La parola inferno, infatti, non è la traduzione di un termine equivalente in ebraico o greco antico, le lingue dei testi originali. Inferno descrive invece un concetto teologico, già esistente in tempi antichi, ma che andò pian piano a insinuarsi nel pensiero cristiano, fino a guadagnare considerevole prominenza, dal quinto secolo in poi. Divenne così diffuso che i traduttori biblici convertirono poi ogni parola con attinenza alla morte in inferno. Per esempio, le parole שאול [sheol], nell'ebraico dell'Antico Testamento, e Ἅιδης [ade], in greco antico del Nuovo Testamento, significano semplicemente tomba, morte o l'invisibile. Il termine era usato indistintamente per chiunque moriva e senza alcun riferimento a un loro destino ultimo. In certi periodi e in certe traduzioni queste due ricorrenti parole furono, invece, tradotte con inferno. Un’altra parola che veniva usata metaforicamente per descrivere la peggior sorte che si potesse subire è Geenna: il nome di un luogo usato come discarica pubblica fuori dalle mura di Gerusalemme.
La sola parola che, in effetti, è riconducibile alla nostra idea di inferno, si trova in 2 Pietro 2: 4. La parola usata è tartaro, l'inferno della mitologia greca in cui Zeus rinchiuse i Titani. Purtroppo l'epistola è pseudepigrafa. La persona che si firma come Pietro afferma che Dio ha rinchiuso gli angeli ribelli nel tartaro, ma il legame con concetti ellenici rivela un diverso autore. Per una serie di motivi, l'epistola fu a lungo considerata incerta anche se e poi venne ugualmente aggiunta al canone biblico. I dubbi di allora sono stati poi confermati da studiosi moderni, anche se questo non annulla la validità dei buoni insegnamenti in essa contenuti.
Un inferno eterno?
Per i Greci Ortodossi, anche se l'inferno c'è, non è eterno. Per i cristiani ortodossi non esiste la stessa idea d'inferno che esiste per quelli latini. A loro avviso l'idea dell'inferno eterno e dell'eterna separazione da Dio, fu un'invenzione dei teologi latini. La loro comprensione di quei brani della Bibbia che parlano di un giudizio di fuoco, è che il fuoco non separa da Dio ma servirà a bruciare l'iniquità dell'anima, affinché venga purificata. Per loro, anche nel Giudizio, Dio è sempre presente. Per loro è anche impossibile tradurre la parola aion, quella usata nei testi originali in relazione ai giudizi di Dio, in eternità, perché sanno che ha un altro significato. I teologi latini, invece, hanno interpretato sia αἰών [aion], dal greco antico del Nuovo Testamento, e sia עולם [olam], dall'ebraico dell'Antico Testamento, in eternità. Le due parole significano, invece, per una vita, un'età o un era, quindi un periodo di tempo limitato e non eterno. Si potrebbe quindi dedurre che l'idea di un inferno eterno non sia un'inconfutabile verità biblica, qualcosa che la modernità sta cercando di spazzare via con altre cose buone del passato, ma sia, invece, un'intromissione teologica sopraggiunta da un certo periodo in poi. Le traduzioni bibliche, specialmente quelle medioevali, sembrano dimostrare questo. Un po' per ignoranza e un po' per convenienza, quell'idea fu anche utilizzata per la gestione dei sistemi religiosi e le masse loro soggette.
Che ne dice il Vangelo?
Potremmo continuare a parlare di brani biblici che si prestano alla supposizione di un inferno eterno, per poi vedere come la teologia latina abbia scelto d'interpretarli. Purtroppo, continuare ad analizzare i fattori storico-linguistici e culturali, così come il lavoro di quei traduttori che partivano da posizioni teologiche già decise, renderebbe quest’articolo troppo lungo, tecnico e noioso. Avendo fin dall'inizio deciso di semplificare, direi di tornare ora a quel criterio fondamentale che abbiamo sempre utilizzato, quello dei vangeli. Sappiamo che in essi troviamo la rivelazione più chiara di chi e come fosse Gesù, e quindi anche il Padre. Se abbiniamo a questo la nostra esperienza personale con Dio, ecco che i fatti e la fede si abbinano, ci danno slancio e un quadro affidabile del carattere di Dio.
Guardando al Vangelo, immaginate cosa ne sarebbe se Gesù avesse raccontato la parabola del buon pastore in questo modo: “Che cosa vi pare? Se un uomo ha cento pecore e novantanove si smarriscono, non lascerà le novantanove smarrite e si rallegrerà per quella non smarrita? In verità io vi dico: se non trova le novantanove si rallegrerà per quella che gli rimane. Così è volontà del Padre vostro che è nei cieli, che chi si perde rimanga smarrito” (“perversione” di Matteo 18: da12 a 14). Orribile! Completamente il contrario di quello che Gesù intendeva illustrare con la parabola originale, in cui Dio si mostra insoddisfatto col 99% di successo ma mira al 100%. Eppure, secondo certe teologie, Dio perderebbe la maggior parte dell'umanità e ne riuscirebbe a salvare solo la minima parte, quei pochi che detengono dottrina e riti “giusti”, ma il resto andrebbe all'inferno. Insomma Dio dovrebbe accontentarsi di una piccola percentuale, di una pecora sola che si salva, mentre le novantanove finirebbero tra le fiamme. Qualcosa non quadra. Qualcosa non combacia col Vangelo.
Sì, è vero che Gesù disse anche che la via che porta alla perdizione è larga e il cancello che porta alla vita è stretto, ma bisogna fare attenzione a non estrapolare certe affermazioni e costruirne ragionamenti che contraddicono l'esempio, il carattere e l’intento di Gesù. E' palese che Gesù non fosse esclusivo e disse “chiunque viene a me io non lo manderò via” quindi l'affermazione sulla via larga e il cancello stretto non può essere interpretato in maniera esclusiva e finale del destino di ogni essere umano. Basti pensare alla conosciutissima storia del figliol prodigo, dal vangelo di Luca 15, versetti da 11 a 32. Vediamo come sarebbe se la adattassimo all'idea di certuni: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: «Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta». Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: «Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati». Si alzò e tornò da suo padre. Quando era ancora lontano, suo padre lo vide e, mosso dall'ira, gli corse incontro e cominciò a percuoterlo. Il figlio gli disse: «Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio». Infatti, proprio così, disse il padre, che ordinò ai servi: «Presto, portate qui gli strumenti di tortura e castigatelo, mettetegli la catene ai piedi e imprigionatelo. Prendete dei tizzoni ardenti e bruciatelo, perché questo mio figlio è morto e ora pagherà in eterno per l'offesa che mi ha recato». E cominciarono a torturarlo. Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì le grida di dolore del fratello; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: «Tuo fratello è qui e tuo padre lo sta facendo torturare affinché la sua giustizia si compia». Egli si impietosì verso il fratello. Suo padre allora uscì a vederlo ed egli disse a suo padre: «Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu ora stai punendo mio fratello perché ti ha disobbedito. Ti prego, punisci me invece, e perdona mio fratello per amore mio. Lo so che lui ha divorato le tue sostanze con le prostitute, ma fa che la sua punizione cada su di me e liberalo». Gli rispose il padre: «Figlio, va bene, accetto la tua sofferenza per placare la mia ira, vieni a soffrire e libererò tuo fratello»».
Che mostruosità! Un’immagine orribile e una distorsione orrenda del carattere di Dio. Nel ruolo del fratello maggiore, ho voluto includere anche un modello concettuale del mistero della croce, non perché necessariamente sbagliato, ma perché nella sua limitatezza è spesso frainteso. Come tutti i modelli non si tratta di una realtà inconfutabile, ma di qualcosa ideato per dare una logica al mistero della croce. Purtroppo è una logica che spesso si perde e finisce con l'intensificare ancora di più un'immagine già cupa del Padre. Ancora una volta si ottiene il risultato opposto di ciò che Gesù intendeva comunicare con la sua parabola, in cui il padre è sempre amorevole e misericordioso. Eppure, secondo la teologia di alcuni, Dio sarebbe come il padre della parabola distorta. Il suo immenso onore, giustizia e ira sono immensamente offesi dal peccato umano e richiedono un risarcimento immenso per essere pacificati. La mancanza di un tale risarcimento comporta la punizione eterna e infinita per avere leso un Dio infinito. L’ira di questo Dio è placata solo dal sacrificio di un figlio misericordioso. Ma che tipo di genitore sarebbe questo? Non di certo il padre di cui parlava Gesù. Certamente esistono dei modelli e spiegazioni migliori per il mistero della croce, seppure ognuno coi suoi limiti, altrimenti non sarebbe un mistero. Tempo permettendo ne considereremo alcuni in un altro studio.
Gesù immagine del Padre
Il Vangelo è, comunque, un messaggio d'amore e compassione. E' il Padre che si manifesta nel Figlio e insieme sono compassionevoli, misericordiosi e accoglienti verso tutti; specialmente con quelli che le religioni tendono a escludere perché ritenuti immeritevoli. A Nicodemo Gesù disse “Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui” (Gv 3: 17). Giovanni Battista, vedendo Gesù esclamò «Ecco l'agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo! (Gv 1:29). Il Padre e il Figlio sono in un’azione congiunta per salvare il mondo, e non in una saga mitologica in cui uno salva gli esseri umani dall'ira dell'altro. Dio non è diviso ma opera in Gesù per salvare l'intera umanità, come è scritto in Giovanni 12: 32 “E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me”. Quell'attirerò è la stessa parola greca ἑλκύω [elkyo̱], usata per descrivere la difficoltà che i discepoli avevano a tirare (elkyo̱) la rete in barca per la grande quantità di pesci che conteneva (Gv 21:6). La parola elkyo̱ è più correttamente tradotta in tirare o trascinare, piuttosto che attirare. Insomma Gesù stava dicendo che una volta crocefisso (innalzato) avrebbe inevitabilmente trascinato, o tirato, tutti quanti a sé.
Il libero arbitrio
C'è chi afferma che Dio vorrebbe tirare tutti a se ma non può perché il nostro libero arbitrio glielo impedisce. Secondo questa opinione la nostra testardaggine sarebbe più forte di Dio, che si sarebbe limitato, da parte sua, a non superare il limite della nostra libertà. Eppure ci sono vari esempi nella Bibbia in cui Dio interferisce con le scelte umane. Il più classico di questi è il caso di Paolo, un persecutore di cristiani che Dio fa cadere da cavallo, l’acceca e lo fa finalmente cambiare. Ci sono altri esempi in cui Dio si dimostra alquanto capace di raggirare l'ostacolo del libero arbitrio. La ragione per cui di solito non lo fa, è perché tramite la nostra libertà sta realizzando qualcosa di meglio. La ragione per cui si usa il libero arbitrio come scusa dell'inferno è perché si sono accettate, a monte, supposizioni sbagliate che non si è disposti a riconsiderare. Tempo permettendo, approfondiremo prossimamente di questo, delle ragioni del peccato e del diavolo. Intanto consideriamo che se il libero arbitrio, il peccato e il Diavolo fossero conseguenze irrimediabili, significherebbe che Dio avrebbe perso il controllo. Dio, insomma, non sarebbe più Dio ma ci sarebbero altre divinità che potrebbero sconfiggerlo rubandogli quasi tutto. L'ordine originale delle cose, anche degli angeli e delle creature spirituali antecedenti l'umanità, quello che esisteva prima della ribellione di Satana, non sarebbe, perciò, più ripristinabile e Dio ammetterebbe la sconfitta. Il diavolo e l'uomo avrebbero vinto. L'unica consolazione di Dio, secondo alcuni, sarebbe quella di distruggere irrimediabilmente tutti quelli che gli si sono ribellati. Che farsa, che trasposizione di concetti filosofici pagani, dualisti, gnostici e assurdi. Per quanto elaborate possano essere certe idee, non sembrano affatto il Cristianesimo.
La soluzione finale
Paolo parlò di un disegno Divino in cui tutto si aggiustava “Come, infatti, in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita.” Insomma, Gesù è l'azione riparatrice di Dio, prevista fin dall'inizio, che rimedia completamente quella distruttiva di Adamo. Paolo non dice “come tramite Adamo la morte è entrata per tutti, tramite Cristo la vita entra solo per alcuni, quelli che credono nella teologia giusta”. Nient’affatto! Paolo fa un paragone che non può essere frainteso, dicendo che quel che vale per tutti in Adamo, vale per tutti anche in Cristo. Nello stesso capitolo Paolo aggiunge “L'ultimo nemico a essere annientato sarà la morte” si sottintende, quindi, che le vittime della morte, subentrata da Adamo in poi, saranno liberate a vita. Il pensiero si conclude, poi, con la descrizione di un evento finale in cui il Padre dà ogni cosa a Gesù e “quando tutto gli sarà stato sottomesso, anch'egli, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti” (1 Cor 15: 22, 26 e 28).
Questo trascurato concetto si chiama apocatastasi, un'altra parola greca che significa ritorno allo stato originario. Questa idea, diffusa nei primi secoli di cristianesimo, ma poi soppressa in vari modi, è l'idea Biblica che completa il disegno del vero Dio supremo. Nella Bibbia la parola apocatastasi è usata in Atti 3,21 “Egli (Gesù) dev'esser accolto in cielo fino ai tempi della restaurazione di tutte le cose (apocatastasi), come ha detto Dio fin dall'antichità, per bocca dei suoi santi profeti”. Un brano veramente interessante, che non solo ribadisce quello che si è detto finora, ma che riporta dovutamente alle profezie dell'Antico Testamento, dove l'idea dell'eventuale redenzione di tutti i popoli era ricorrente. Per di più non c'è alcun accenno a un inferno eterno nell'Antico Testamento. Se questo esistesse davvero si suppone che almeno qualche riferimento o avvertimento ai popoli di allora, sarebbe stato dovuto, ma niente del genere.
Interessante il fatto che la maggior parte dei padri della chiesa primitiva credeva in questo concetto dell'apocatastasi, nella redenzione finale di ogni cosa. La parola vangelo, infatti, significa buona notizia ed era integralmente un messaggio universale di salvezza globale. Come può, invece, considerarsi “buona notizia” un vangelo che insegna la salvezza solo per i pochi e la distruzione eterna per la maggior parte dell'umanità? Ovviamente ci fu una trasformazione graduale del vangelo e fu da quel quinto secolo in poi, con la crescente influenza di una certa teologia latina, che l'idea dell'apocatastasi fu gradualmente abbandonata. A sostituirla subentrò quella di un inferno eterno dal quale non vi era scampo e in cui cadrebbe chiunque non avesse la “religione giusta”. Tale distorsione crudele prevalse nei secoli successivi, dove il terrore delle fiamme eterne oscurò completamente l'amore infinito di Dio. Quell'azione redentrice di Cristo che conduce all'apocatastasi, o restaurazione di tutte le cose, fu così ben soppressa in occidente che ci vollero secoli prima di riscoprirla. Fu dal 1700 in poi che si cominciò a riscoprire quel disegno originale, ripreso da teologi di spicco come Friedrich Schleirmacher, Karl Barth, Hans Urs von Balthasar (teologo favorito di Giovanni Paolo II), Joseph Ratzinger, Adriana Zarri, Paolo De Benedetti, Karl Rhaner e altri. Ciò non significa che questi non credano in un possibile inferno, ma semplicemente che concordano su quell'idea del primo cristianesimo in cui Dio redimerà ogni sua creatura in un'apocatastasi finale. Anche per chi di loro crede nell'inferno, in questo disegno Divino, non si tratterebbe di una condizione irrimediabile, ma di un ulteriore strumento di purificazione mirato a una redenzione finale.
Misericordia io voglio e non sacrifici” (Mt 9: 13)
Siamo tutti d'accordo che Dio non è solo amore ma anche giustizia, ma l'idea di una giustizia ed ira di Dio in uguale misura al suo amore, e che questa richieda un riscatto o sacrificio sostitutivo per appacificarla, rende Dio simile a certe divinità pagane del politeismo. Dio non è né diviso né schizofrenico, ma consistente con la sua essenza d'amore. La sua giustizia è sempre motivata dall'amore, come Gesù cercò ripetutamente di far capire ai religiosi dei suoi giorni “Andate a imparare che cosa vuol dire: Misericordia io voglio e non sacrifici” (Mt 9: 13).
I giudizi di Dio, per quanto meritati e severi possano essere, hanno sempre uno scopo amorevole, col buon fine di condurre anche il caso più disperato al pentimento e redenzione finale. In Isaia 45: 23 Dio disse “davanti a me si piegherà ogni ginocchio, per me giurerà ogni lingua”. Questo sembra non escludere nessuno, ma c'è chi lo immagina come l'evento in cui anche le schiere di demoni e dannati si piegheranno finalmente davanti a Dio in ammissione di sconfitta. Immaginarsi che questa resa finale avvenga solo per mera necessità di adempiere la giustizia divina, nega però tutto quello che il vangelo ci insegna sul Padre. In cristo non è il desiderio di giustizia, di vendetta e di placare l'ira di Dio, che prevale, ma l'amore e misericordia del Padre per ogni creatura. Come disse Paolo “Poiché la creazione con brama intensa aspetta la manifestazione dei figliuoli di Dio; perché la creazione è stata sottoposta alla vanità, non di sua propria volontà, ma a cagion di coLui che ve l'ha sottoposta, non senza speranza però che la creazione stessa sarà anch'ella liberata dalla servitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figliuoli di Dio” (Rom 8: 19 a 21). Insomma, Dio ha calcolato anche questa vita piena di problemi, ingiustizie e altro, perché sapeva di avere la capacità di portare ogni cosa a quel buon fine per cui valeva la pena attraversare tutto ciò. Una giustizia, quindi, molto più ampia di quella distorta dell'inferno, o quella soggettiva di questo mondo; una giustizia in cui l'amore creatore di Dio vince su ogni cosa e redime ogni cosa. Come l'apostolo Paolo insegnò “L'amore non fallisce mai - tre cose che non svaniranno: fede, speranza, amore. Ma la più grande di tutte è l'amore” (1 Cor 13: 8 e 13) e non l'ira e la giustizia.
Anche Paolo riprese le parole dei profeti “ogni ginocchio si piegherà davanti a me e ogni lingua renderà gloria a Dio” (Ro 14: 11) e spiega di Gesù “Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami: «Gesù Cristo è Signore!, a gloria di Dio Padre” (Fil 2: da 9 a 11). E come potrebbero tutti quanti, di ogni lingua e nazione, in cielo, in terra e sotto terra, lodare Dio se gran parte di essi fossero condannati alle fiamme eterne? Ovviamente l'inferno eterno non si adatta a queste parole che attraversano dall'Antico al Nuovo Testamento. La promessa che viene spesso ripetuta è, invece, quella dell'apocatastasi finale, in cui ognuno proclama “Gesù Cristo è Signore!” e, come sta scritto, nessuno può dire: “Gesù è il Signore', se non è veramente guidato dallo Spirito Santo” (1 Cor 12: 3). E' chiaro che l'immagine non è quella di un Dio iracondo che spinge i suoi nemici a prostrarsi, perché solo dall'amore può nascere la lode sincera. Non sono la sconfitta, la paura e il giudizio che sfociano in lode, ma la misericordia e la grazia. “Né alcuno avrà più da istruire il suo concittadino, né alcuno il proprio fratello, dicendo: «Conosci il Signore!». Tutti infatti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande di loro” (Ger 31: 34 e Ebr 8: 11).
Un Dio né ipocrita né schizofrenico
Leggendo vari articoli in cui si intervistavano partecipanti al fenomeno di un nuovo cristianesimo anonimo e del crescente declino delle istituzioni religiose classiche, ho notato una parola in particolare che usavano per descrivere quelle istituzioni di cui non desiderano far parte: “ipocrisia”. In un altro sondaggio avvenuto di recente negli USA, si chiedeva, invece, ai non credenti cosa pensassero dei credenti, e di nuovo prevaleva la stessa parola “ipocriti”. La stessa parola fu usata ben dodici volte da Gesù, nel Vangelo di Matteo, per descrivere i religiosi dei suoi tempi. Stranamente questa parola non appare fra le accuse scagliate contro i primi cristiani, anche nei periodi delle loro peggiori persecuzioni.
Cos'è successo da allora ad oggi? Cos'è che influisce? Cosa viene prima: l'uovo o la gallina? Intendo dire, è l'immagine di un Dio ipocrita che crea ipocrisia nei cristiani, o è tale ipocrisia che crea un'immagine analoga di Dio? Si potrebbe discutere sia in un verso o nell’altro, ma torniamo, ancora una volta, al semplice criterio del Vangelo, all'originale. Qui vediamo che Gesù insegna ripetutamente a perdonare i nostri nemici e ne dà esempio chiedendo al Padre di perdonare perfino coloro che lo uccidevano. Perdona persone corrotte, prostitute, peccatori di ogni genere e riprende, invece, i religiosi per la loro intolleranza verso gli emarginati e i poco di buono. Insegna anche a non resistere alla violenza e ne da l’esempio, ma poi che succede? Qualche secolo dopo il cristianesimo cambia, si riveste di potere, di eserciti e crea la teologia che gli serve. La fede, quindi, cambia ed è ora ammissibile, perfino ammirevole, imporla con le armi. Il dissenso non è più tollerato e gli eretici si possono bruciare; ovviamente per salvare coloro che potrebbero cadere nell'eresia e finire in un inferno eterno. I conti tornano per il nuovo potere “cristianizzato” ma non per il vangelo in cui è subentrato, tramite un’abile teologia, la stessa ipocrisia che Gesù aveva condannato.
E' perciò comprensibile che chi conosce la teologia latina dal primo medioevo in poi, si chieda se in effetti il Dio di cui parla non sia ipocrita, o schizofrenico. Chi altri, infatti, chiederebbe ai suoi figli di perdonare i loro nemici, ma condannerebbe i propri alla tortura di un inferno eterno? Chi altri chiederebbe ai suoi figli di porgere l'altra guancia a chi li percuote, ma invierebbe eserciti a imporre il proprio volere politico? Chi altri insegnerebbe a non giudicare, ma poi giustizierebbe brutalmente chi ha idee contrarie? Insomma, le inconsistenze sono troppe e si finisce col dubitare seriamente di una tale divinità. Non è difficile capire chi non voglia più sentir parlare di un tale Dio.
L'anticlericalismo e il nuovo cristianesimo anonimo, sono in parte una reazione naturale a quel che si proclamava in tal modo “cristianesimo”. I paladini delle antiche tradizioni additano prontamente i nuovi eretici della laicità e dei cristianesimi alternativi, li incolpano per la decadenza morale della nostra società, ma c'è a monte un'altra decadenza che ne è pure causa, ed è quella dell'immagine di Dio. Un’immagine giustamente criticata, perché forgiata sullo stampo di sistemi antiquati e corrotti che si autodefinivano cristiani, che ingoiavano i cammelli, ma soffocavano nei moscerini. A fatica si riesce oggi a separare le cose, a far capire a un non credente che Gesù non è quello che certi sistemi hanno descritto, che Dio non è dalla parte delle nazioni e culture più potenti, certamente non di quelle prepotenti. Che Dio è il Dio di tutti e ama tutti indistintamente, curandosi di ogni sua creatura, e che ha promesso che chi si esalta sarà umiliato, beati i poveri, gli umili, gli affamati, gli assetati, che gli umili erediteranno la terra, gli ultimi saranno primi e i primi ultimi, le montagne saranno abbassate e le valli innalzate, e ogni ginocchio si piegherà. Per questo la vita è assai efficace: prima o poi ci pieghiamo tutti e scopriamo che Lui era sempre lì che ci aspettava, pronto ad accoglierci, a rialzarci e a introdurci a una nuova vita. Forse per questo gli umili erediteranno la terra, perché nella nuova terra del ritorno all'ordine originale, saremo tutti più umili, dopo che la nostra presunzione sarà dovutamente finita all'inferno, cioè bruciata.
A mio avviso è arrivata l'ora di abbracciare il Dio dell'apocatastasi. Il Dio che ci siamo lasciati indietro per farcene uno a nostra misura. E' ora di riprendere l'immagine che ci perviene dal vangelo e lasciar perdere quella degli inferni danteschi. E' ora di amare come Gesù ci ha detto di amare, perché è da questo che Lui disse si sarebbero riconosciuti quelli che operano in nome suo. E' ora di restituire il primato al Dio d'amore perché è l'amore che non fallisce mai e alla fine vincerà. Se l'inferno c'è, sappiamo che un giorno sarà vuoto. Se Dio è come l'ha descritto Gesù, allora sappiamo che non sarà mai soddisfatto col 99% di successo e neanche col 100%, ma da buon gestore ricaverà il 1000% dalla nostra esperienza di vita. Se Dio è Dio, è capace di rigenerare ogni cosa, perfino il diavolo, appena sarà servito al suo scopo.