martedì 10 gennaio 2012

LA RELIGIONE ANCORA PIÙ SEMPLICE

Tempo fa scrissi La Religione Semplice, un manuale per lo studio biblico, per renderlo più accessibile, semplice e alla portata di tutti. Lo definii un “fai da te” perché offriva alcuni strumenti interpretativi basilari con i quali chiunque poteva affrontare lo studio Biblico, anche da solo. Nell'introduzione tenni a precisare che, sebbene alcune esperienze nel tempo mi avessero portato a maturare una comprensione più chiara, lineare e semplice, ero pur sempre consapevole di vivere in un continuo processo di apprendimento. Sapevo che questo comportava anche un continuo superamento di idee obsolete e condizionamenti precedenti; sapevo che nessun apprendimento poteva mai essere definitivo e che, perciò, neanche alcun insegnamento sarebbe mai potuto esserlo. Per questo, ora, scrivo di nuovo: per condividere alcune maturazioni che ho avuto nella mia comprensione di certi aspetti; per parlare di alcune cose che ho continuato a superare e per definire meglio quella semplicità di Cristo che ora vedo ancora più semplice.

Mi sarebbe difficile, però, descrivere quella maggiore semplicità che intravedo, senza prima indicare alcuni elementi che le si oppongono, che confondono e rendono la religione cristiana estremamente complessa. Come, a volte, è necessario abbattere prima di ricostruire, scavare per porre le fondamenta, come con una matassa intrecciata, di cui dobbiamo ritrovare l'inizio del filo per poterla districare, anche nel caso del cristianesimo, a volte, bisogna mettere tutto da parte e ricominciare dall'inizio: da Gesù. Da quell'inizio, che sia quello storico dell'incarnazione di Dio in Gesù di 2000 anni fa, o quello del nostro incontro personale con Lui, dobbiamo poi laboriosamente ricostruire. Dobbiamo sciogliere i nodi, rimettere le cose in ordine, separando l'essenziale dal superfluo, l'utile dall'ingannevole, chiedendo a Dio di aiutarci a cambiare le cose che vanno cambiate e a non cambiare quelle che non vanno cambiate, ma soprattutto, di aiutarci a riconoscere la differenza.

Affinché Dio possa esaudire questa richiesta occorre, sotto l'aspetto storico, ricalcare il cammino del cristianesimo e farci guidare da Lui a riconoscere dove le cose si siano aggrovigliate. Non occorre essere storici per questo, basta leggere i vangeli e un po’ di storia del cristianesimo per vederci abbastanza chiaro, per capire che sono sempre esistite due realtà diverse che camminavano parallelamente e davano l'impressione di essere un'unica cosa. Queste due realtà diverse sono il Cristianesimo e la cristianità. (Il teologo e filosofo Danese Kierkegaard fu fra i primi a definire il “cristianesimo” come espressione di rapporto ed esperienza intima con Cristo, e la “cristianità” come degenerazione del cristianesimo, o religiosità visibile ma senza Cristo).

Per attuare lo stesso processo nell'ambito della nostra esperienza personale, occorre, invece, riconoscere quale sia stato il nostro contatto diretto con Gesù, se c'è stato, e, pian piano, separare quell'elemento dell'azione di Dio in noi (la fede) dagli altri elementi delle nostre credenze umane (la cristianità) che ce ne confondono l'immagine. Ci sono aspetti religiosi che ci creano pregiudizi, che ci fanno assumere atteggiamenti e idee che noi prendiamo per scontato che siano cristiani, ma che, in realtà, non lo sono affatto. Questo processo personale è assai più delicato di quello storico e soltanto Dio può guidarlo perché è diverso da persona a persona. Pertanto, nelle prossime pagine, mi limiterò semplicemente ad analizzare l'aspetto storico, le cose da cui tutti possiamo imparare e che possono, a loro volta, stimolare anche il processo individuale.

Per chi dubitasse sul valore della storia, tengo a precisare che è estremamente importante e imprescindibile. Ognuno di noi vive una sua storia personale nella storia collettiva e ne è profondamente influenzato, che se ne renda conto o meno. La Bibbia è per la gran parte storia, da quella dell'Antico Testamento a quella dei Vangeli e degli Atti degli Apostoli. Le profezie, poi, sono tutte legate alla storia: quella passata e quella che sarà. Vi chiedo, quindi, la pazienza di seguire con me un breve riassunto storico del Cristianesimo.


LA STORIA

Sappiamo tutti come avvenne il primo Natale, e conosciamo anche una buona parte dei fatti concernenti Gesù da adulto, cosa fece e cosa insegnò. Sappiamo anche del suo scontro finale con i capi religiosi, che lo condannarono a morte, dopodiché ci fu l'evento più significativo, quello della sua resurrezione e ascesa ai cieli. Ecco, in sintesi, quell'avvenimento epocale che diede inizio a una nuova era. Fu qualcosa che durò solo pochi anni e che non avrebbe lasciato alcun segno se non fosse stato per qualcosa di più, ma scarsamente definibile, che agiva, per così dire, sotto la superficie visibile di quell'evento. Fu l'innescarsi di una nuova dinamica nel rapporto fra Dio e l'uomo, iniziata con la resurrezione di Cristo, che oltrepassò i limiti di quel periodo storico, di quella cultura, di quella religione e di quella tradizione. Questa dinamica diventò globale perché offriva un'esperienza vera e propria con Dio, qualcosa di concreto cui chiunque poteva accedere, in qualsiasi parte del mondo, in qualsiasi cultura e in diverse forme.

Dopo quei pochi anni di Gesù in terra come uomo, ci fu poi il fenomeno di quell'esperienza personale con Gesù che perpetuò l'evento iniziale e creò un'onda inarrestabile destinata a toccare ogni continente. Non si trattava di una religione, di una morale, di un'ideale, di una nuova etica o di una filosofia, ma di un evento che avveniva nella persona che, avendo udito di Gesù, si apriva poi a Lui, all'esperienza del Suo Spirito. Tengo a precisare, però, che non si tratta di esaltare un'esperienza mistico-emotiva come segno di fede. L'esperienza di Cristo non si può limitare a nessuna dimensione umana, sia emotiva sia intellettuale, che coinvolga i sensi in qualche modo; certo, non li esclude, in quanto anche i nostri sensi possono darci una misura di trascendenza, quando guidati dal trascendente, ma l'esperienza di Gesù è qualcosa di veramente personale e spirituale che non si può né limitare ai sensi, né definire con gli strumenti della nostra lingua. Non è possibile fissare la dinamica di quell'esperienza a una formula specifica, intellettuale o emotiva, perché Cristo vive in ogni cristiano come espressione unica di se stesso. La persona che vive questa esperienza, però, riconosce questa dinamica che attua fondamentali cambiamenti in lui, una sorta di rinascita, di riconfigurazione dei modi d'intendere e di vedere, che porta nuove prospettive e aspirazioni, nuovi desideri e intenti e una diversa comprensione delle cose.

Dalla pentecoste in poi il Cristianesimo consisteva di questa esperienza dinamica di Cristo che entrava a coabitare nella persona, agendo dall'interno come una forza nuova, e non dall'esterno come la religione impone con la sua morale, la sua etica e le sue regole. È chiaro che questo evento interiore avesse poi vari risvolti a seconda delle persone, degli ambienti e delle culture in cui esso avveniva. Per quanto fosse un'esperienza prettamente spirituale, le persone di varie culture e religioni cercarono poi d'interpretarla non solo con gli strumenti del vangelo, la storia di Gesù e i suoi insegnamenti, ma anche con gli strumenti della loro cultura, della religione precedente, della filosofia ecc. Per questo, fin dall'inizio, vi furono vari tipi di Cristianesimo derivanti da distinti processi sincretici.

Chi afferma che vi fosse una sola cristianità e che la varietà nel cristianesimo sia avvenuta soltanto secoli dopo, non conosce né la storia né la Bibbia. Gran parte del Nuovo Testamento è dedicata, infatti, a una fra le tante interpretazioni diverse e contrastanti del cristianesimo. Il primo cristianesimo era senza dubbio “ebraico”, molto legato all'antico testamento e alle leggi mosaiche, mentre il secondo fu “greco”, molto più filosofico, con elementi gnostici. Interi capitoli delle epistole di Paolo sono dedicati alla tensione esistente fra questi due cristianesimi diversi. Più tardi nacque e si distinse anche un cristianesimo “romano” più razionale, burocratico, uno “africano”, più ascetico, poi altri più “orientali”, “gnostici”, “dualisti”, ecc. Il cristianesimo è, infatti, molto incline ai sincretismi, cioè al mischiarsi con altre cose, perché il cristianesimo non è essenzialmente una religione, una filosofia o un ideale. Essere cristiani, alla sua origine, è l'esperienza di Cristo che entra nella persona che lo accoglie e sebbene questo sfugga alle definizioni classiche del pensiero umano, non sfugge però ai tentativi umani di dargli una forma concreta in religione, teologia, morale o etica. In questo modo si sono sviluppate le varie forme di cristianità che vediamo oggi.


STORIA E TEOLOGIA

Il tentativo umano di comprendere razionalmente e di definire grammaticalmente l'esperienza umana di Cristo, causò la nascita e l'evolversi della teologia. Quando sorsero incomprensioni, deviazioni e divergenze fra le varie forme di cristianesimo, per esempio quello ebraico e quello ellenico, iniziò il dibattito teologico. Paolo fu il primo a usare strumenti e ragionamenti teologici per dimostrare che l'antica religione ebraica era stata superata da Cristo. L'apostolo Giovanni, poi, usò strumenti della filosofia greca, come il concetto di logos per quel famoso prologo al suo vangelo, in cui definisce la divinità del logos che si fa carne in Cristo (Giov. 1: da 1 a 14). Da quell'inizio a oggi, alla teologia moderna, esiste un lungo e complesso cammino che vorrei spiegare e, per quanto possibile, semplificare.

So che la parola “teologia” spaventa un po’ e dà l'idea di qualcosa di riservato a un’élite di persone dovutamente accreditate. Molti pensano che non valga neanche la pena provarci, che sia una cosa troppo accademica, con un linguaggio tutto suo e comprensibile soltanto dai suoi intimi conoscitori. Ebbene sì, il tipo di teologia sistematica che viene insegnata nei vari istituti religiosi è, in effetti, qualcosa di penosamente complesso, una sorta di ramo specialistico, spesso fine a se stesso e scollegato da altri aspetti più salienti della fede cristiana. Non è questo tipo di teologia di cui intendo parlare e neanche desidero raccontare l'intera storia della teologia cristiana. Voglio semplicemente parlare dell'influenza in tutti i tempi della teologia sui cristiani. Voglio demistificarne la natura e mostrare che non è necessario studiare teologia per capirne le ragioni e la dinamica. Basta solo un po’ di storia per fare tanta chiarezza.

Per di più non basta dire “io ho fede, conosco Gesù e quindi non ho bisogno di altro, né storia né teologia” - è vero che conoscere Gesù è l'elemento essenziale, ma c'è un problema di fondo cui nessuno riesce a sfuggire, e lo spiegherò con un esempio: Ogni cristiano, cattolico, ortodosso o protestante, fa riferimento alla Bibbia quale fondamento della propria fede e vede in essa la parola di Dio. Chiunque la legga vede in essa elementi in comune con tutti gli altri, ma in gran parte ognuno vede nella bibbia anche la conferma della particolare teologia della sua chiesa d’appartenenza. Per quanto diversi i credi, le dottrine, i riti, i sacramenti, le tradizioni, le vie indicate per la salvezza ecc. il cristiano che legge la Bibbia vi trova la conferma del suo particolare tipo di cristianesimo, della chiesa in cui è cresciuto e da cui ha ricevuto una formazione teologica, anche se indirettamente. La persona può non avere mai letto niente di prettamente teologico eppure è profondamente condizionata dall'insegnamento dei teologi/padri della sua chiesa.

Perché questa diversità di forme, di pensiero, di teologia e d’interpretazione della Bibbia? Per due ragioni principali: La prima è che nella bibbia, in effetti, non c'è il fondamento per una sola teologia e un solo modo di vedere... faccio un esempio usando l'aspetto soteriologico, cioè della salvezza dell'anima. In un articolo di qualche anno fa intitolato "Il dono della salvezza", su Christianity Today, l'autore Timothy George sosteneva la teologia della giustificazione per grazia, definita anche salvezza per fede, e la dimostrava citando 23 versetti dal Nuovo Testamento. Altrove, in un altro articolo, lo studioso Ken Vincent, affermava invece che ci sono ben 139 versetti nel Nuovo Testamento che confermano il concetto di salvezza per grazia. Allo stesso tempo ci sarebbero anche 551 versetti che indicano la salvezza tramite le buone opere, con 389 di questi che sono parole di Gesù stesso. Poi enumera anche 178 versetti che indicano una salvezza universale, di cui 31 versetti che indicano che l'inferno non è permanente. Fa poi notare che una quarta posizione teologica, la dottrina della predestinazione, dispone di 77 versetti a suo favore. Queste sono tutte posizioni soteriologiche apparentemente diverse e tutte con abbondante scrittura a loro favore. Chi ha ragione? Chi è Napoleone? Ovviamente non è a colpi di scrittura che si può arrivare al consenso, altrimenti ci si sarebbe già arrivati.

La seconda ragione è che, come già detto, siamo tutti influenzati dal nostro particolare ambiente teologico, che sia esso cattolico, ortodosso, protestante o altro. Chi fa esperienza di Cristo all'interno di una di queste realtà, assimila, poi, il modo d'interpretare la sua esperienza dalla teologia di quella particolare chiesa. Per esempio, il cattolico che fa esperienza di Cristo, allega alla sua esperienza anche l'intero bagaglio delle credenze con i dogmi, i sacramenti e le altre particolarità prettamente cattoliche. L'ortodosso fa lo stesso con le sue e altrettanto fa un protestante o altro.

Mi rendo conto che sto usando stereotipi per niente esplicativi delle varie differenze e spero che non vi si dia troppo importanza. Il mio intento non è quello di descrivere o valutare i diversi cristianesimi, ma di dimostrare come questi aspetti della diversità si associno e diventino quasi inseparabili dall'esperienza reale di Cristo che, d'altronde, accomuna ogni vero cristiano che accoglie lo Spirito di Dio in sé.

All'origine della diversità stanno vari fattori culturali, storici e politici, ma quello che ha definito, codificato e preservato la diversità è stato il lavoro dei teologi, persone che hanno dato forma all'attuale pensiero delle varie confessioni. Noi tutti siamo profondamente influenzati dalla teologia a noi più vicina, anche le persone meno religiose. Perfino coloro i quali semplificano al massimo e affermando di non credere a nient'altro che alla Bibbia, serbano in loro idee teologiche di cui trovano conferma nella scrittura, ma non perché palesi e inequivocabili, ma perché ricevute in precedenza. Questo non è di per sé negativo, ma è qualcosa di cui bisogna riconoscerne la natura soggettiva, dovuta alle particolari circostanze di un determinato ambiente religioso.

Ugualmente, la teologia, come studio di Dio, non è di per sé qualcosa di cui diffidare perché ha anche contribuito sostanzialmente a una migliore articolazione delle cose pertinenti a Dio, guidando spesso a una migliore comprensione della Sua parola. Cionondimeno, c'è anche un lato oscuro e fuorviante di cui dovrò parlare un po’ per aiutarci a semplificare certe complessità che c'influenzano negativamente e ci distraggono dalla vera immagine di Gesù.

Anch'io, per anni, non osavo considerare interpretazioni teologiche alternative a quelle in cui ero cresciuto, poi decisi di addentrarmi un po' nelle opere dei teologi più conosciuti. Più leggevo e più mi stupiva il processo con cui alcuni erano arrivati a quelle conclusioni che noi oggi prendiamo per scontate. Quello che mi sorprendeva, e continua a sorprendermi, è come, utilizzando i criteri dell'argomentazione logica, della scolastica e filosofia Aristotelica, i teologi potessero arrivare ad affermazioni dogmatiche su cose assolutamente inscrutabili e indimostrabili. Ora ammetto che leggendo un particolare teologo e seguendo il suo ragionamento logico, inevitabilmente si arriva alle sue stesse conclusioni. La convinzione però cade quando si legge un altro teologo che trae conclusioni opposte. Le diversità di opinioni fra i vari teologi si scontra con il loro tono sicuro e rende alquanto insicura la capacità intellettiva di razionalizzare Dio e la fede.

Mentre il semplice racconto di Gesù è in grado di generare l'esperienza concreta di Dio, le parole erudite dei teologi non danno gli stessi risultati: a volte aiutano, ma spesso confondono. Quel che più confonde è come diversi teologi hanno usato le stesse scritture per dimostrare opinioni diverse. Con sforzo umano, intellettivo, tramite tecniche di studio, metodi di analisi razionale e la costante contrapposizione di argomentazione e contro-argomentazione, i teologi articolavano e solidificavano la loro particolare posizione. A volte prevaleva la necessità di contrastare la teologia di una cristianità diversa e squalificarla come eresia, almeno nell'ambito della propria confessione. Spesso esisteva, infatti, una vera e propria battaglia intellettiva combattuta con le armi della dialettica, della retorica e della logica. Il fine perseguito non era più l'amore di Dio, ma far prevalere, tramite la ragione, la propria idea contro quella di un avversario. La ragione era così, se pur sempre velatamente, elevata a divinità e la rivelazione di Cristo, manifesta in esperienza personale dello stesso, era offuscata in quella gara per stabilire razionalmente il concetto teologico vincente.

Questo fu lo stato di cose con la maggior parte dei concili avvenuti dal quarto secolo in poi e in cui si stabilirono i principali dogmi del cristianesimo. Alcuni di questi concili furono vere e proprie battaglie ideologiche, con una fazione che prevaleva sull'altra o viceversa in tempi successivi. Ci furono le scomuniche reciproche dei rappresentanti di varie fazioni, ci furono lotte e sotterfugi a non finire e, infine, ci volle la forza politica di Roma, la spada insomma, per mettere tutti (o quasi) d'accordo. Chiaro è che anche Roma aveva degli interessi politici e voleva stabilire l'uniformità teologica e istituzionale per una migliore gestione dell'impero. L'intervento degli imperatori (Costantino, Teodosio, ecc.) aiutò così a stabilire l'ortodossia ufficiale e mise a tacere le maggiori voci di dissenso, le cosiddette prime eresie, ma neanche la forza politica e organizzativa di Roma fu però sufficiente a garantire la completa uniformità del cristianesimo. Vi furono interminabili tentativi di formulare una teologia unica e ufficiale, la cosiddetta ortodossia, articolandola nei vari “simboli”, nel cosiddetto “credo”. Questi venivano man mano “perfezionati” ed elaborati nella loro definizione legalistica, al fine di non lasciare alcuno spazio ai fraintendimenti, all'eresia che si era voluto eliminare. Era comunque una forzatura e come tutte le forzature ebbe solo risultati esteriori, parziali e temporanei.

Il connubio fra politica e cristianesimo mostrò presto la sua contraddittorietà. Nell'anno 381 l'imperatore Teodosio attuò un’ulteriore forzatura dichiarando illegale qualsiasi altra cristianità o altra religione oltre a quella di Stato, ufficialmente approvata. Da perseguitati, i cristiani divennero persecutori di chi era pagano e di chiunque, pur cristiano, non seguisse la teologia ufficiale. Quest'ondata d’intolleranza orchestrata dallo Stato e dalla sua confessione ufficiale, sfociò nel primo martirio di un cristiano da parte di altri cristiani. Nell'anno 385, Priscilliano, un vescovo della Gallia che osò differire sulla formulazione ufficiale del concetto trinitario, fu il primo cristiano a essere condannato a morte per eresia.

Gli interessi politici avevano spinto l'impero ad appoggiare il progetto di un cristianesimo unico. La diversità era espressa in varie interpretazioni teologiche che alimentavano le diatribe fra le molte fazioni. La teologia fu dunque il campo in ci si era adoperati per appianare le differenze, cosa che non fu né facile né mai pienamente attuata. Si era trattato di stabilire quale fosse la teologia “giusta”, cioè ortodossa, e quale quella “sbagliata”, cioè eretica. Il fatto era che ognuno considerava la propria fede ortodossa e le teologie vincenti non furono necessariamente quelle della maggioranza. Le cosiddette eresie non erano la religione di qualche minoranza presumibilmente settaria che seguiva delle credenze strane, ma si trattava di grosse fette del Cristianesimo, a volte maggioritarie.

In quel difficoltoso e forzato cammino per arrivare a una teologia ufficiale, tutto si era ridotto a un confronto e a una gara intellettiva per dimostrare e imporre un'idea vincente. Tutto si era imperniato sulla capacità di intendere e di articolare correttamente “la fede” come se “la fede” consistesse principalmente nell'assenso mentale a una particolare dottrina. Dando così tanta importanza all'articolazione precisa di un credo, si finì col distogliere la fede dal suo contesto originale, trasferendola in un nuovo concetto di cristianità, la cui ortodossia non è per niente certa. Sebbene la teologia vincente facesse apparire tutto più lineare e razionale, in realtà si era perso qualcosa di più importante ma indefinibile, elusivo e incontrollabile. Si era perso Cristo come centro del Cristianesimo e così si era perso l'inizio del filo e la matassa si aggrovigliò enormemente. Molti hanno definito quel periodo storico, in cui i cristiani salirono dall'arena (quali perseguitati) alla gradinata (quali persecutori), come il momento in cui il Cristianesimo si trasformò in mera cristianità.

Quell'unità artificiosa andò man mano sfaldandosi quando quella imperiale, che l'aveva creata, si ruppe. L'inevitabile frazionamento che avvenne da allora, fece sì che, fra le varie forme di cristianesimo che andavano man mano sviluppandosi, ognuna utilizzasse quegli stessi criteri iniziali per dimostrare di avere l'unica “vera fede” e per marchiare quella del concorrente come eretica.


L'ESSENZA ELUSIVA DEL CRISTIANESIMO

Riflettendo su tutto ciò, è doveroso chiedersi se in realtà essere cristiani consista così criticamente e principalmente in aderire a idee, credi, dottrine e teologie - le cose con cui i cristiani si sono combattuti per secoli – o se non ci sia qualcosa di più determinante che sfugga all'attenzione e, a questo punto, offro l'inizio della mia tesi per una “religione ancora più semplice”. A mio avviso, la risposta a questa domanda è che, certo, l’essere cristiani può anche comportare l’adesione a idee e concetti teologici, ma la Cristianità non è un'ideale, un'etica, una morale, una filosofia o una teologia. La Cristianità è essenzialmente e solamente Cristo in noi, la dinamica del suo incarnarsi in noi che diventa esperienza di vita, non teoria ma potenza dello spirito. Il tutto è così semplice che il teologo e il filosofo faticano a chinarsi abbastanza da poterlo recepire, principalmente perché sono convinti di poterlo capire intellettualmente, mentre questo tutto va vissuto. A ragione Gesù disse che i bambini lo capivano meglio (Mat. 11: 25).

Sì, è vero che nel cristianesimo c'erano state alcune idee un po’ strane, alcune di quelle che ora chiamiamo “eresie”, ma l'imposizione di una teologica unica e la loro abolizione non risolse il problema, anzi diede impeto ad una nuova forma di “eresia”: la cristianità di massa. Con la sponsorizzazione della politica imperiale, questa nuova religione che valutava la quantità, i numeri, il successo, la forma, gli edifici, la pompa, invece che l'esperienza di Cristo, prese il sopravvento. La cristianità, quell'espressione imitativa del cristianesimo, sostituiva la reale esperienza di Cristo con dottrine, tradizioni, riti, costumi e un elaborato pensiero teologico che la giustificava e le faceva apologia.

Nel forzare un'unica comprensione di Dio, tramite la teologia ufficiale, si sostituì Cristo con un'idea, un credo da seguire alla lettera, una morale, un'etica e una religione ufficiale. Per quanto questi facessero riferimento a Cristo, articolando il credo in maniera sempre più complessa e applicandovi i criteri della filosofia ellenica, si stava pian piano attuando un sincretismo sempre più accetto alle popolazioni dell'impero. Essendo poi che queste venivano sempre più insistentemente spinte alla conversione, si avviò anche un processo di cristianizzazione del paganesimo, cioè del rivestire a cristianità quelle tradizioni e costumi pagani che cristiani non erano. In fondo questo sincretismo apparente era (e rimane) l'unica forma di cristianesimo accessibile a chi non lo voleva ma lo subiva per imposizione o pressione sociale (e per chi oggi lo riceve come eredità sociale).

Quell'esperienza che Gesù aveva descritto a Nicodemo (Giovanni 3) e che si era manifestata di lì a poco con la pentecoste era in gran parte non considerata. L'impero Romano era ora riuscito a fare di quell’esperienza personale qualcosa di più concreto, terreno, palpabile, e allettante a ogni gusto religioso. Il cristianesimo era ora più attraente per chi era abituato alla sacralità dei templi e dei riti religiosi; per chi era attratto dall'intellettualismo della filosofia; per chi desiderava l'emotività mistica dell'ascetismo, o la soprannaturalità superstiziosa dell'animismo e del culto di oggetti. Insomma, il nuovo cristianesimo offriva tutte quelle cose con cui la gente era abituata a identificare la spiritualità. Era così diventato un prodotto multiuso, con qualcosa per tutti, ma nell'oggettivare questi elementi separati che venivano sempre più identificati con l’essere cristiani, si era perso quell'indefinibile, indescrivibile, incontrollabile e non addomesticabile elemento che sfugge a qualsiasi controllo... lo Spirito di Dio.

A questo punto vorrei riprendere l'inizio del filo, nelle parole con cui Gesù stesso descrisse ciò che era venuto per portare. Nel vangelo di Giovanni, terzo capitolo, si racconta la storia di un incontro che è fondamentale per la nostra comprensione di chi è Gesù e qual è l’essenza del Cristianesimo. Cito il capitolo e includo alcuni commenti, fra parentesi, per facilitarne la comprensione:

C'era tra i farisei un uomo chiamato Nicodemo, un capo dei Giudei. Egli andò da Gesù, di notte, e gli disse: «Rabbì, sappiamo che sei un maestro venuto da Dio; nessuno, infatti, può fare i segni che tu fai, se Dio non è con lui». (Gesù era un personaggio controverso ed era, quindi, potenzialmente compromettente per Nicodemo, membro del sinedrio, incontrarlo di giorno, rischiando di essere identificato come suo seguace. Nicodemo però aveva visto i miracoli di Gesù e la sua curiosità lo spingeva a questo incontro notturno) Gli rispose Gesù: «In verità, in verità ti dico, se uno non rinasce dall'alto, non può vedere il regno di Dio». (Gesù vede che Nicodemo è attratto dai miracoli e gli spiega che per quanto sorprendenti questi siano, non sono affatto la cosa più importante. C'è una realtà assai più determinate, il regno di Dio, ma nessuno lo può vedere se prima non è nato di nuovo) Gli disse Nicodemo: «Come può un uomo nascere quando è vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?» (Non comprendendo ciò di cui Gesù sta parlando, Nicodemo, col proprio intendimento razionale, fa la domanda più ovvia) Gli rispose Gesù: «In verità, in verità ti dico, se uno non nasce da acqua (il bambino cresce in una sacca d'acqua per nove mesi e poi esce con acqua) e da Spirito, non può entrare nel regno di Dio. Quel che è nato dalla carne è carne (da acqua) e quel che è nato dallo Spirito è Spirito (dalla pentecoste in poi). Non ti meravigliare se t'ho detto: dovete rinascere dall'alto. Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va: così è di chiunque è nato dallo Spirito». (Insomma, i miracoli per Gesù non sono il massimo, ma lo è il Regno di Dio e l'entrarvi a farne parte tramite una rinascita spirituale. Questa è la ragione per cui Dio si è incarnato. E' però qualcosa di là dalla comprensione umana, qualcosa di indefinibile, come il vento che si vede solo indirettamente nei suoi effetti. In ebraico, greco e latino la parola “spirito” deriva o è, infatti, la stessa usata per vento, aria e respiro. Il vento è l'analogia che Gesù usa e anche nel giorno della pentecoste, lo Spirito Santo è accompagnato da un gran vento, forse per ricordare i presenti delle sue parole e far loro sapere che la nuova vita è iniziata. Questa vita è la realtà del Cristianesimo ed è come il vento. Come tale non può essere contenuta dottrinalmente, né legalisticamente, né può essere razionalmente definita, né tantomeno circoscritta in una singola teologia, per quanto sofisticata essa sia, né può essere racchiusa in una tradizione, per quanto “apostolica” si affermi essa sia.) Replicò Nicodemo: «Come può accadere questo?». Gli rispose Gesù: «Tu sei maestro in Israele e non sai queste cose? (I maestri di Israele erano pressoché teologi e profondi conoscitori delle scritture. Qui sembra che Gesù stia quasi ironizzando e alludendo alla futilità dell'eccessiva fiducia nella conoscenza delle scritture, quando manca la rinascita spirituale) In verità, in verità ti dico, noi parliamo di quel che sappiamo e testimoniamo quel che abbiamo veduto; ma voi non accogliete la nostra testimonianza. Se vi ho parlato di cose della terra e non credete, come crederete se vi parlerò di cose del cielo? Eppure nessuno è mai salito al cielo, fuorché il Figlio dell'uomo che è disceso dal cielo. E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell'uomo, perché chiunque crede (enfasi mia) in lui abbia la vita eterna.» (La nuova vita di cui Gesù parla era in lui stesso e si sarebbe attuata con la sua crocefissione. È per chiunque creda in lui, ma il credere di cui si parla qui non è l'assenso mentale a un'idea, a un insegnamento o a una dottrina. Si tratta invece dell'accogliere la persona di Gesù in sé. Gesù non disse “io vi do la vita, la resurrezione, la verità e la salvezza” ma disse “Io sono la vita, la resurrezione e tutte queste cose”. Ritornerò su questo perché qui sta la grande semplicità del cristianesimo, che in essenza non è una religione come comunemente inteso, ma è Gesù stesso.)


PIÙ STORIA E TEOLOGIA

Ritornando alla storia impariamo che per via delle cosiddette eresie ci fu la necessità di definire per tutti quale fosse la natura di Dio. Il risultato fu il cosiddetto Credo (o Simbolo niceno-costantinopolitano) con le sue integrazioni successive. Fu la conclusione di anni di discussioni teologiche per definire quale fosse la natura di Dio e la prassi corretta per esprimere la fede cristiana. Il credo, così come si è abituati a recitarlo, sembra abbastanza semplice, ma è la sintesi di volumi e volumi di proposizioni teologiche. Non è, come si pensa, qualcosa tramandatoci dagli apostoli, ma fu il risultato di interminabili diatribe, proposte e controproposte per arrivare, in quel quarto secolo a un'unica e approvata teologia. Non fu neanche qualcosa in cui tutti si trovarono d'accordo, nemmeno la maggioranza dei cristiani, ma fu in gran parte una forzatura da parte di chi, in qualche modo, poté prendere il sopravvento.

Mi sono più volte chiesto come quei teologi, il cui pensiero diventò dogma della fede nell'impero appena convertito, fossero così più profondamente intelligenti degli altri da potere capire e articolare con tale categoricità e finalità la natura di Dio, la relazione fra le tre persone della trinità, l'interazione fra le due nature di Cristo, quella divina e quella umana, la dinamica soteriologica, l'esegesi e l'ermeneutica biblica; tutte cose su cui si discute ancora oggi e che non hanno un fondamento specifico e inconfutabile nel testo biblico.

Fatto sta che non si raggiunse mai l'unanimità in questo e i disaccordi, come quello sulla natura di Dio, furono la causa di varie scissioni. Le prime a separarsi dall'ortodossia imperiale furono le cosiddette chiese orientali antiche, poi anche la chiesa di Roma prese la propria strada. Il Cesaropapismo che s’instaurò dalla conversione di Costantino in poi aveva adottato Costantinopoli, nuova capitale dell'impero, come sede del suo potere politico e religioso. Cionondimeno esisteva l'idea di una leadership collegiale della chiesa, la cosiddetta pentarchia delle cinque sedi patriarcali di Gerusalemme, Antiochia, Alessandria, Roma e Costantinopoli. Nel sistema Cesaropapista, però, l'imperatore assumeva spesso un ruolo di primato in cui si eguagliava a un apostolo.

Con la decisione di costruire Costantinopoli, si volle creare anche una capitale cristiana in cui non fossero più esistite le antiche radici pagane di Roma. Col declino di Roma come capitale dell'impero e di Gerusalemme come sede centrale del cristianesimo, Costantinopoli fu conseguentemente designata a ruolo di nuova Roma e nuova Gerusalemme. Mentre in teoria si manteneva il sistema collegiale della pentarchia, in pratica Costantinopoli, rivendicava un certo primato nei confronti degli altri patriarcati.

Nei confronti di Roma, come capitale antica e prima sede amministrativa dell'impero, avendo svolto un ruolo cruciale nello sviluppo della cristianità, era riconosciuto invece un titolo onorifico di “prima fra uguali”; un onore che le negava, però, qualsiasi autorità di là dalla propria giurisdizione. Per varie ragioni, nei secoli a venire, Roma si oppose e rivendicò sempre più incessantemente un primato suo in virtù del fatto che gli apostoli Pietro e Paolo fossero stati presenti e strumentali nella fondazione della cristianità romana. Più tardi nacque anche l'idea del cosiddetto primato di Pietro, sennonché dell'infallibilità dei vescovi romani.

La tensione interna fra Roma e Costantinopoli raggiunse il suo culmine con il cosiddetto “grande scisma” del 1054 in cui ci furono scomuniche reciproche e ognuna delle due chiese brandì l'altra come eretica. Le differenze teologiche, alcune a che fare con aspetti trinitari e già in corso da vari secoli, diventarono ancora più ampie e insormontabili nei secoli a venire. Tuttora, nonostante il ritiro delle rispettive scomuniche, avvenuta al termine del concilio Vaticano II, abbiamo questa divisione del cristianesimo latino (cattolici e protestanti) con una sua comprensione della natura di Dio trinitario, e l'ortodossia greco - russa con una assomigliante ma diversa. Le chiese ortodosse d'oriente, quelle che si erano già separate nei primi secoli, ne conservano un'altra ancora e più antica, mentre le più recenti chiese unitarie rigettano del tutto il concetto di Dio trino.


I LIMITI DELLA TEOLOGIA

Per quanto possano intimorire le complesse argomentazioni della teologia trinitaria, delle due nature di Cristo, dell'interagire e dell’unicità o meno d'essenza fra Padre e Figlio, il timore reverenziale per la teologia sparisce quando si mettono a confronto idee e teologi diversi. I teologi, infatti, sono i più qualificati per la critica di colleghi e lo fanno incessantemente. Loro, più di chiunque altro, possono palesare le incongruenze, gli errori di logica e di interpretazione. Leggendo l'uno e poi l'altro si può facilmente individuare quel tallone d'Achille che ogni mente umana presenta, inclusa quella del teologo più illuminato.

Se prendiamo, ad esempio, Agostino d’Ippona, il teologo più noto nella cristianità Latina, sia cattolica sia protestante, non è difficile, oltre ai pregi, cogliere anche aspetti umani e quindi i suoi limiti. Ora, col vantaggio di un trascorso storico è facile individuare anche il danno che certe sue idee hanno causato. Certo, c'è tanto da imparare da Agostino, ma ci sono anche tante cose che ci trasciniamo appresso dalla teologia di quel periodo che sarebbe meglio dimenticare; cose che fornirono la giustificazione morale per le conversioni forzate, per l'inquisizione e la persecuzione di altri cristiani, per l'utilizzo della forza, per affermare l'ineguaglianza dei sessi o la concezione e l'ossessione distorta del peccato originale con la conseguente demonizzazione della sessualità, per determinare la fobia della dannazione eterna ecc.

Insomma, se la teologia, con la sua dialettica filosofica, la logica, l'esegesi ed ermeneutica fossero state sufficienti per produrre un'unica interpretazione e armonia del testo biblico, 2000 anni di storia sarebbero abbondantemente bastati. Al contrario, molti teologi moderni, col vantaggio di una migliore comprensione della storia, nuovo materiale rinvenuto e ora a loro disposizione, inclusi i testi rinvenuti negli ultimi secoli, stanno attuando una sorta di revisionismo teologico in cui le antiche posizioni sono rivalutate e a volte anche ribaltate. Insomma, invece di essere più vicini al consenso generale, ne siamo più lontani che mai.

A un certo punto si arriva a chiedersi quale sia la necessità e l’importanza di giungere a una comprensione razionale e unica della natura di Dio. Se le cose che i teologi insistono nel volere capire e spiegare sono quello che Dio vuole far capire o se non preferisca, invece, lasciarle avvolte nel mistero della fede o la diversità di vedute, l'elasticità e l'inclusione di più idee e interpretazioni, piuttosto dell'ambita uniformità dell'ortodossia. Ci si chiede anche se la complessità della teologia, il volerla rendere una scienza intellettiva e l'insistere nella creazione di rigide confessioni di fede legate a dogmi assoluti, non sia, in fondo, un elaborato occultamento di una profonda crisi di fede, imponendone una artificiale – se non si cerchi di compensare con contenuti intellettivi della teologia dogmatica la mancanza di quelli interiori.

D'altro lato sarebbe sbagliato criticare ogni forma di dogmatismo e dare l'impressione di favorire, invece, una sorta di relativismo apatico nei confronti della fede. Nel caso del teologo che ha fatto esperienza di Dio e usa la sua ragione e abilità linguistica per comunicare ad altri quello che ha imparato, è comprensibile che lo faccia con un certo entusiasmo e appaia quindi dogmatico. Questo tipo di dogmatismo è però giustificabile perché non è frutto di un semplice sforzo intellettivo, ma proviene da un'esperienza diretta col soggetto in discussione, cioè Dio. In ogni modo, come disse il saggio in Ecclesiaste 5:2, “…Dio è in cielo e tu sei sulla terra; le tue parole siano dunque poche”. Quando parliamo di Dio, dunque, anche se entusiasticamente per via di un'esperienza avuta, di qualcosa che ci ha toccati e illuminati profondamente, dobbiamo pur sempre ricordarci della nostra fragilità umana e della nostra perenne parzialità d'intendimento.

A dimostrazione di questa imperfezione intellettiva e dei limiti della ragione, sta che innumerevoli trattati di teologia, opere dei più autorevoli teologi che a loro tempo furono considerate il massimo dell'intendimento razionale su Dio, a volte furono superate dal lavoro di successivi teologi. Questi, studiando e costruendo sulla precedente comprensione di Dio, vi scoprirono incongruenze e ragionamenti fallaci, e composero poi una nuova teologia, più razionale e apparentemente migliore, ma tale solo fino a quando anch'essa fu messa alla prova e cominciò a mostrare i segni del tempo arrivando a una nuova e forse più approfondita comprensione di Dio.

Questa è la storia della teologia che non fa altro che confermare quello che in parole semplici Paolo disse 2000 anni fa: “L'amore non verrà mai meno. Le profezie verranno abolite; le lingue cesseranno; e la conoscenza verrà abolita; poiché noi conosciamo in parte, e in parte profetizziamo; ma quando la perfezione sarà venuta, quello che è solo in parte, sarà abolito. Quando ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino; ma quando sono diventato uomo, ho smesso le cose da bambino. Poiché ora vediamo come in uno specchio, in modo oscuro; ma allora vedremo faccia a faccia; ora conosco in parte; ma allora conoscerò pienamente, come anche sono stato perfettamente conosciuto. Ora dunque queste tre cose durano: fede, speranza, amore; ma la più grande di esse è l'amore.” (1 Cor. 13: da 8 a 13)

Bisogna considerare anche che, nella maggior parte dei casi, i teologi hanno una posizione all'interno di un determinato ramo della cristianità. Spesso hanno una cattedra in qualche prestigioso istituto di formazione teologica, uno stipendio e una carriera all'interno di un'istituzione religiosa. Come tali non sono mai completamente liberi di varcare la soglia della teologia ufficiale dell'istituzione che li sponsorizza. Esistono perciò dei limiti, a volte anche solo economici, nella loro libertà di pensare, esplorare o esprimere idee alternative. Di solito possono solo muovesi entro l’ambito di una teologia già prestabilita e per questo la maggior parte del loro lavoro è in gran parte apologetico, cioè a difesa e sostegno del loro particolare schieramento religioso.

E' un po' come lo scandalo avvenuto pochi anni fa sulle intercettazioni delle mail fra scienziati che lavoravano all'interno di certi istituti designati e finanziati per lo studio del riscaldamento globale. Che il fenomeno del riscaldamento esista o no non è il punto, ma lo è la dinamica svelata da quelle mail, in cui si parlava di dati falsificati per soddisfare le esigenze politiche di chi finanziava gli istituti. Si tratta della stessa dinamica che ha sempre influenzato anche i teologi che, come quegli scienziati, non sono liberi da pressioni economiche e dai rischi per la loro carriera.

Questo induce diffidenza nella teologia di un unico schieramento religioso in quanto è spesso interessata e indebitamente apologetica, non a favore di Dio, il che sarebbe ammirevole, ma per l'istituzione stessa. Per questo penso di avere imparato di più, confrontando posizioni contrastanti, o da quei teologi che per qualche ragione hanno perso il loro ruolo e prestigio all'interno di una particolare chiesa, spesso per avere osato pensare e parlare al di fuori degli schemi prestabiliti. Mi chiedo, infatti, cosa pensassero veramente gli eretici. Si è fatto così tanto per cancellarne le tracce e gli scritti che oggi conosciamo soltanto le posizioni dei loro accusatori, di quanti li hanno combattuti, e abbiamo soltanto tracce delle loro versioni nei verbali dei processi che li condannarono; mi chiedo chi fosse veramente ortodosso e chi eretico. Solo Dio lo sa!

Avendo chiarito questo, bisogna però riconoscere, nei suoi limiti, l'utilità della teologia e dello studio delle cose che riguardano Dio. La Bibbia stessa, che non è un trattato in teologia sistematica, presenta in ogni modo tanta teologia, con vari punti di vista, a volte contrastanti. L'apostolo Paolo descrisse il cammino del cristiano come quello di una persona che cresce nel tempo e impara sempre di più, man mano mettendo da parte le comprensioni infantili per sostituirle con quelle da adulto. In questo senso il teologo può essere come un buon pastore che cammina dove stiamo andando e ci aiuta a fare il passo successivo nel nostro approfondimento delle cose di Dio. Non intendo quindi sminuire il ruolo della buona teologia, ma solo spiegare che anche i teologi camminano lo stesso sentiero di ogni cristiano e anche loro, come bambini crescono e imparano.


PRECONCETTI E CONDIZIONAMENTI

Analogamente alle varie posizioni teologiche, anche il mio corso, “La Religione Semplice”, sta invecchiando e ci vedo già alcune cose che allora davo per scontate ma che ora riconosco come parte di una particolare angolatura che mi condizionava. Se potessi, se ne avessi il tempo ne riscriverei alcune parti, ma penso sia meglio aggiungere, aggiornare e lasciare così la traccia di una normale maturazione che in ogni modo avviene in chiunque abbia deciso di seguire Cristo. E' normale non avere mai tutte le risposte, maturarne alcune o chiarirne altre e ritengo, comunque, che il corso rimanga valido perché, come dissi allora, non intendeva affatto sostituirsi alla lettura della Bibbia ma solo essergli d'introduzione e facilitarne lo studio, come credo sia ancora opportuno. Ora, però, vorrei aggiungere qualcosa che ritengo determinante, che so di non avere sufficientemente chiarito prima, perché neanche per me non era così chiaro, come lo sta invece diventando ora. Per questo ho intitolato questo articolo “LA RELIGIONE ANCORA PIÙ SEMPLICE”.

Mi appresso, quindi, al punto cui miravo e che ha principalmente a che fare con la questione soteriologica della salvezza dell'anima e tocca anche le questioni della natura di Dio, della Trinità, del battesimo, dei sacramenti e dell'inferno. Quello che dirò renderà tutto veramente più semplice, ma avverto che potrebbe offendere qualcuno.

Come ho accennato all'inizio, le varie teologie cristiane offrono varie modalità per ottenere quello che molti credono sia lo scopo principale della religione cristiana, cioè la salvezza dell'anima. La discussione è sempre stata molto accesa su quale sia la prassi corretta per ottenere questo traguardo. Alla radice di quel dibattito stava il timore di un’orribile alternativa alla salvezza, cioè il fuoco eterno. Da questo timore provenivano le motivazioni per cui sia cattolici sia protestanti destinarono molti dei loro dissidenti “eretici” all'esecuzione capitale. Nel loro concetto teologico di salvezza, l'eretico, con la sua opinione teologica diversa, poteva, infatti, distogliere i fedeli dalla prassi “corretta” per ottenere la salvezza e quindi far sì che la loro anima fosse dannata in eterno. Quest'ordine d’idee, vivamente promulgato da noti teologi, portava all'inevitabile conclusione che l'eresia fosse un crimine peggiore dell'omicidio, perché l'omicida uccideva solo il corpo, ma l'eretico uccideva l'anima, e questo per l'eternità. Per questa ragione non c'era altra opzione per le autorità civili e religiose, se non quella di reprimere brutalmente qualsiasi scostamento dall'ortodossia ufficiale, unica via per la salvezza.

Come si era arrivati a questo? Come si era creata una tale distorsione e orrenda caricatura dell'esempio, delle parole e del carattere di Gesù? Tutto era iniziato in quei secoli in cui si volle eliminare il dissenso per stabilire un'unica ortodossia in un impero che insisteva su di un ordinamento uniforme, anche per la religione. Tutto cominciò dall'idea che la cristianità potesse instaurare il regno di Dio in terra con la spada, la politica e gli strumenti di questo mondo, tra questi la teologia, cui fu dato il compito di giudicare fra ortodossia ed eresia. I tenui e instabili criteri che i teologi fornirono diventarono così anche il fattore decisivo per decidere chi dovesse andare in paradiso e chi all'inferno.

Tuttora, in quasi ogni ramo della cristianità, sussiste quello stesso metodo di valutazione. Ognuno rivendica la propria ortodossia e denuncia l'eterodossia o l'eresia degli altri. Le necessità storiche di preservare la propria forma di cristianità, di prevenire una fuga di fedeli verso la cristianità concorrente, hanno sempre fatto sì chi i teologi di una particolare cristianità, ortodossa, cattolica o riformata che fosse, producessero un ampio volume di teologie apologetiche. Questo tipo di teologie, oltre che a rivendicare un ruolo fondamentale delle idee, delle tradizioni o della ritualità di una particolare istituzione, definendola immancabilmente come l'”unica e vera chiesa”, dichiaravano, inoltre, l’adesione all'istituzione strumento indispensabile per la salvezza, e che senza di essa, senza la partecipazione ai suoi sacramenti, ai suoi riti ecc., vi fosse l'inferno. Questo tipo d'insegnamento era estremamente efficace per incutere nei fedeli il timore di allontanarsi dalla loro chiesa e migrare verso altre confessioni. Tutto questo era imperniato principalmente nella paura di un inferno eterno, una paura spesso consapevolmente utilizzata a danno di milioni di persone semplici e a favore di potenti istituzioni ecclesiastiche. Così facendo si rendeva la salvezza un oggetto, un prodotto elargito da una particolare istituzione cristiana che si era auto-abilitata a rilasciare un, anzi, “il” “passaporto” valido per l’aldilà.

Per quanto riguarda i criteri biblici della cosiddetta salvezza dell'anima, cito di nuovo il dottor Ken Vincent, che afferma ci siano ben 139 versetti nel Nuovo Testamento a sostegno di una salvezza gratuita, per grazia. Poi anche 551 versetti che indicano la salvezza tramite le buone opere e 178 versetti che indicano una salvezza universale, cioè che tutti saranno eventualmente salvati. Cita poi anche 31 versetti che indicano che l'inferno non è permanente e fa notare una quarta posizione teologica, la dottrina della predestinazione, che dispone di 77 versetti a suo favore. Ora si può essere in disaccordo sul numero esatto di riferimenti biblici, ma non si può negare che queste siano posizioni teologiche ampiamente sostenute, sia dalle scritture sia da un buon numero di teologi e confessioni.

Da questa vastità di dati e di opinioni, vediamo quanto sia pressoché impossibile arrivare a una conclusione comune. Se cerchiamo l'uniformità e una conferma indiscutibile di una qualsiasi interpretazione teologica non la troveremo mai. Ovviamente la risposta è altrove, in qualcosa che sfugge a gran parte della teologia dogmatica, analitica e razionale. Qualcosa che ovviamente non può essere dimostrato tramite l'esegesi e l’ermeneutica del testo biblico, ma che va oltre e oserei dire è assai più semplice, così semplice che bisogna essere bambini per capirlo.

Per anni ho creduto anch'io che ci fosse una transazione, un gesto particolare, un biglietto magico per accedere alla salvezza. Ora credo che non ci sia una formula, che non ci siano parole magiche da ripetere, battesimi, riti, articoli di fede da imparare, concetti teologici da capire, opere buone da compiere, o altro, per ottenere la vita eterna. Allo stesso modo non credo che l'essere cristiani consista nell'applicare principi di un’etica, regole, morali, e serie di prescrizioni che definiscono il cosiddetto cristianesimo. Insomma, non credo che esistano dei “prodotti” cristiani separati da Cristo. Tutte queste cose, come la salvezza, la morale, l'etica, le buone opere, non sono altro che Cristo stesso e manifestazioni del suo carattere in noi, dimostrazioni dell'attività del Suo Spirito in noi perché Gesù è la salvezza, la porta, la via, la vita, la verità, l'etica, la morale, la condotta, la giustizia e l'amore.

E' l'esperienza di Cristo che racchiudere in se tutto quello che Gesù è. Non siamo noi che tramite la religione, l'etica, la buona morale e la disciplina produciamo il cosiddetto Cristianesimo e le sue virtù separatamente da Cristo. E' solo aprendoci a Lui, con la cosiddetta fede, che non è una decisione intellettiva, teologica, ma il vuoto che creiamo di fronte a Lui e in cui Lui entra, è questo e solo questo che porta in noi la vita di Cristo. E' Cristo che come l'acqua corre verso il vuoto, verso il punto più basso: nei cuori di chi si apre a Lui, negli umili, negli spezzati, nei peccatori; in tutti quelli che sanno di avere fallito, di non avere una propria morale, di non avere un proprio amore, di non avere una propria giustizia, di avere fatto tanti sbagli; di tutti quelli, insomma, che si arrendono dalla pretesa dell'io ed è in quella resa a Lui che accade il miracolo, la nuova vita in Lui. Avviene quello che Paolo descrisse: “non sono più io che vivo ma è cristo che vive in me”. Nella misura in cui l'io si arrende a Lui, Lui nasce e cresce in noi ed è Lui in noi a essere nostra salvezza, amore, vita e ogni cosa che definiamo comunemente cristiana.

Non c'è una salvezza a parte questo. Gesù dice “Io sono la resurrezione e la vita”, non “io vi do la resurrezione e la vita”, dunque, “IO SONO” in quanto non sono doni, cose, che lui dà separatamente da se stesso.

Alle varie confessioni, invece, piace oggettivare gli elementi cristiani e interporsi come mediatrici fra noi e Cristo, come fossero dei “babbi natale” che potessero distribuire i Suoi doni ricevendo così un po’ del Suo onore e assicurando al loro interno professioni e carriere ecclesiastiche. La “religione cristiana”, però, non esiste, ma è solo un'idea umana, una brutta imitazione che confonde e trae in inganno. Quel che esiste è solo Cristo e Cristo in noi, la sua vita in noi, l'azione del Suo Spirito in noi. Questo è tutto! Un unico “pacchetto” con ogni cosa che la religione pretende gestire come oggetti di commercio. Quell'esperienza di Gesù in noi è qualcosa che Dio dà liberamente e ognuno può averla liberamente nel momento in cui si spoglia di sé e si volge lo sguardo a Lui. Questo è il vangelo, la buona notizia che Gesù voleva far sapere a tutti: che la porta non è più chiusa! Anzi, Lui e uscito per incontrarci e ora sta bussando alla nostra porta. Noi non dobbiamo neanche più andare da Lui, è Lui che è venuto da noi e ci aspetta pazientemente, aspetta quel momento in cui sentiamo il suo bussare, deponiamo le nostre paure e gli apriamo la porta, che avvenga presto o tardi, Lui è lì che ci aspetta, sempre.

Che cosa vuole dire tutto questo? Che chiunque ha Cristo in sé ha tutto quello che Cristo è. Ha vita, verità, salvezza, resurrezione, amore, etica, giustizia, morale ecc. Il cristianesimo è Gesù e basta, e Gesù bussa per entrare nella vita di tutti.


LA MORALE E L’ETICA DEL CRISTIANESIMO

Per spiegare meglio quello che intendo userò un esempio. Mi sono trovato più volte in incontri fra cristiani dove si additavano gli aspetti non cristiani del mondo: la perdita di fede, la paganità di certe celebrazioni, la poca moralità, la “non cristianità” di altre chiese, gruppi di persone, sette, ecc. Ho sentito più criticismo fra cristiani, specialmente sul resto dell'umanità, che da qualsiasi altro gruppo di persone. Perché? Si tratta di una conseguenza di quel separare da Cristo quelli che si ritengono attributi cristiani. E' l'effetto del creare una copia dei contenuti cristiani dagli indizi che abbiamo sulla sua natura, il che sfocia in falsità, ipocrisia, atteggiamenti presuntuosi, religiosità e nell'emulare le caratteristiche del cristianesimo con forza umana, ma senza Cristo.

Più volte, in questo tipo d'incontri, si dimostrava tanto zelo religioso, si parlava tanto di religione, eppure nel punto focale dei più mancava Cristo. Al centro di tutto stava invece la religione stessa, la sua morale, i dogmi, le regole, i comandamenti, l'etica e gli ideali, ma Cristo, se considerato, lo era solo marginalmente. Partecipe anch'io di questo stato di cose, ho acquisito gradualmente la consapevolezza di un’intrinseca religiosità legata alla natura umana, ma separata da Cristo, che oggettualizza quegli elementi presumibilmente cristiani. Gradualmente e con l'aiuto di chi ne aveva fatto esperienza prima di me, ho scoperto che si è esenti da quell'oggettivazione e imitazione umana solo nei momenti in cui si lascia Gesù vivere in noi, manifestarsi in noi tramite l'attività del Suo Spirito in noi.

Per il cristiano la risposta è rendersi conto di questa intrinseca contraddittorietà umana e riconoscere, invece, la dinamica che ci libera dalla pretesa, dal cercare di produrre il cristianesimo tramite la religiosità, con le proprie forze; cosa che, inevitabilmente, ci fa cadere nella trappola della superbia spirituale, dove si finisce col pensare: “Guarda come sono bravo, buono, spirituale, pieno di fede, di carisma, quanto sacrifico per Dio ecc.” In effetti, in questo stato di cose, siamo noi a “fabbricare” i “prodotti” del cristianesimo per essere salvati, siano essi la fede o la virtù, il moralismo, l'onestà o altro che dimostriamo; siamo sempre noi. Paolo invece disse: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2: 20).

Ora attenzione: non sto minimizzando l'etica e la morale cristiana, anche in coloro che la producono con la propria forza e per motivi religiosi. E' bene evitare certi vizi, seguire la morale, l'etica e gli ideali Cristiani e non si può che ammirare chi ne fa una scelta di vita, ma, in certo qual modo, è ingannevole pensare che questi aspetti costituiscano di per sé l'esperienza cristiana, che è Cristo in persona.

Per di più, la virtù etico-ideale della religione, e con questo intendo la virtù che deriva da un corpus di regole e atteggiamenti esteriori a scapito della mancanza di realtà interiori, non solo isola la persona dal fare esperienza concreta di Dio, ma tende immancabilmente a glorificare l'individuo che vi s'impegna. L'individuo tende così a insuperbirsi tramite la religione. Anche se è un vanto di pretesa umiltà, in cui magari si atteggia, ciò lo porta a confrontarsi criticamente con gli altri, nei quali vede incessantemente peccati, poca fede, immoralità e così via. Insomma, la cosiddetta virtù che viene dall'io tende a porci su un piedistallo dal quale giudichiamo tutti e chiunque non segua i nostri stessi criteri morali.

Quest’oggettivazione della virtù e dei “prodotti” della religione, porta poi a elevare un modello di presunta bontà e santità come traguardo di vita. Ovviamente, nessuno riesce mai a conformarsi al modello e così il modello stesso crea un senso costante d’insoddisfazione interiore. Di fronte a questo ci si consola sempre con il confronto critico con chi crediamo sia peggio di noi, giudicando sempre con gli stessi criteri artificiosi. Insomma ci si conforta dicendo: “Beh! Almeno io non bevo, non fumo, non bestemmio, non rubo, non sono immorale, non tradisco ecc.”. Si finisce col dire questo sperando che il fatto che non siamo come gli altri ci dia qualche credito con Dio colmandone, almeno in parte, il debito. Fatto sta che non c'è niente di cristiano in tutto questo, se non qualche vago riferimento a certi principi comunemente ritenuti cristiani, ma comuni anche in ogni altra religione e fra atei.

Gesù non è un concetto o una definizione teologica... Gesù non si può capire, solo conoscere. Non fa nessuna differenza quale concetto teologico pensiamo sia giusto. La nostra idea non cambia la sua natura. E' solo un’elaborazione a livello intellettuale, filosofico e dottrinale che sfocia in credenze diverse. E' solo nelle tensioni fra confessioni, nella ricerca della stabilità religiosa che s’invoca lo spauracchio dell'eresia di chi la pensa diversamente, ma la persona che conosce Gesù non si pone nemmeno la domanda. Non le interessa se Dio è tre, due, uno - se Gesù è uguale, subordinato o separato perché sa semplicemente che Gesù funziona e vive in lui. Questa è la semplicità più semplice che ci sia e per cui Gesù disse che se un uomo non si converte e non diventa bambino non può entrare nel regno di Dio. E come accendere l'interruttore e si accende la luce. Non serve cercare di capire la dinamica degli atomi nell'elettricità per usufruirne.


LA FEDE

Ora una chiarificazione sulla fede. Oltre all'etica e alla morale, che vengono spesso confuse come essenza del cristianesimo, c'è un altro suo strano aspetto che viene erroneamente considerato centrale. Si tratta dell'idea che il cristianesimo consista nella condizione mentale di aderire a una particolare dottrina teologicamente definita. Si pensa che sia fede “nella giusta dottrina” a determinarne l'inclusione o meno del credente nella vera Chiesa, regno di Dio e futura redenzione. In questo modo non è il conoscere Cristo che diventa l'oggetto centrale, ma la dottrina stessa. Il “credo” e la sua formulazione razionale e analitica diventano criterio essenziale di ortodossia, di fede corretta. Il cristiano che devia da questa teologia ufficiale, che ovviamente varia secondo le istituzioni che la ufficializzano, è eretico, parte di una fede aberrante, di una setta, seguace del diavolo e automaticamente escluso dalla salvezza e dall’appartenenza alla particolare istituzione.

Tutto si riduce al tipo di approccio teologico che si adotta, Cattolico, Ortodosso, Luterano, ecc., come se la salvezza dell'anima umana dipendesse proprio dalle idee che uno riceve dal catechismo di ognuna. Ancora oggi gli schieramenti religiosi della cristianità si escludono l'un l'altro con accuse di eterodossia, eresia, paganesimo, idolatria, se non, addirittura, di satanismo. Poco conta che quelle differenze teologiche che li distinguono oggi, originarono vari secoli dopo Cristo e che secondo la loro attuale teologia, o perfino quelle dei Padri della Chiesa del quarto secolo, tutti i primi cristiani, apostoli inclusi, sarebbero automaticamente considerati eretici. Nessuno dei primi cristiani avrebbe, infatti, mai prestato fede alle molteplici “verità” disegnate dai vari concili ecumenici. Nessuno di loro aveva mai pensato alla complessità del concetto di trinità, delle nature separate di Cristo, al ruolo di Maria e altre cose che subentrarono dopo e furono rese criterio di distinzione fra ortodossia ed eresia. Insomma la loro cristianità, con i suoi vari problemi, non aveva niente a che fare con la teologia dei secoli successivi, che non può semplicemente invalidarla in base a concetti più “avanzati”. Furono loro i primi e, sebbene con tante lacune teologiche, furono indubbiamente strumenti di Dio. Essenzialmente fu il fenomeno della vita di Cristo in loro, nelle persone che si aprivano a Lui, che fece da propulsore al cristianesimo primitivo prima che subentrassero le dottrine, prima della teologia, prima delle varie chiese, prima delle eresie e prima di tutto quello che noi oggi pensiamo sia il cristianesimo. La fede, quindi, non è un'idea, non è teologia, ma è l'aprirsi a Cristo, indipendentemente da qualsiasi altra cosa.

Abbiamo così visto come Cristo può diventare marginale, mentre un'idea e la sua comprensione razionale diventano il centro della religione e passaporto per la salvezza. Ma Cristo non s'incarnò per darci un'ideale, che avrebbe potuto darci altrimenti, né per darci un'etica, delle regole o un modello di comportamento, ma per darci se stesso. Gesù non disse niente di nuovo per quanto riguarda l'etica e la morale, dove enfatizzò per lo più cose già conosciute e le antiche scritture.

Quel che Gesù disse di nuovo era “Io sono la vita, la resurrezione, la porta, il pane, l'acqua, la via, la verità, ecc”. Non disse “Io vi do queste cose”, ma “IO SONO questo” e aggiunse che senza di Lui non possiamo fare niente. Il cristianesimo quindi è Cristo, è Lui in noi, la Sua vita nella nostra, il Suo spirito in noi, è il Natale incarnato in noi; Il resto è mera religione, cristianità e non Cristianesimo.

C'è un solo principio, una sola teologia, una sola salvezza, una sola verità... Gesù in noi. Una porta dove si entra, il pane che si mangia, l'acqua che si beve, l'eternità che si vive. Quando? Ora e sempre con Gesù in noi. Tutto qui, tutto Lui e nient'altro... il resto è religione, è il prodotto della capacità, dell’emotività e dell'intelletto umano; un'immagine e non la realtà. L'unica realtà è LUI. Questa è la semplicità del vangelo.

Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può far frutto da se stesso se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. (Gio 15: 4 e 5)